Una volta, un tifoso mi ha detto: «Punto tutto sul ventisette rosso». Non parlava del casinò, anche se eravamo a Montecarlo. Parlava di me, Gilles Villeneuve, pilota della Ferrari. Era il 31 maggio dell’anno scorso. Quel giorno ho vinto, Piquet è andato a sbattere, Jones me lo sono mangiato. Quell’uomo ha fatto bene a puntare su di me. Chissà se lo farà anche domani a Zolder?
Oggi sono solo le prove, eppure sento la passione delle persone mentre corro. Qualcuno dice che è strano che mi sostengano così, in fondo ho vinto poco, sei gare in tutto, nessun mondiale. Ma la gente mi segue, mi cerca, mi incita. E io tento sempre di dare qualcosa di più, di alzare il piede dall’acceleratore un secondo dopo gli altri. So che un giorno potrei avere un tremendo incidente, e che quel giorno potrebbe essere oggi, 8 maggio 1982. Ma non puoi staccare il piede dall’acceleratore mentre stai andando veloce. Il pilota davanti a te deve vedere che non hai paura. Deve averla lui.
Come durante il duello con Arnoux, a Digione, tre anni fa. Mi chiedono spesso cosa ho provato durante quegli ultimi tre giri infernali. Volevo arrivare prima di lui, tutto qui. Non primo in assoluto, perché non avremmo mai potuto raggiungere Jabouille, lottavamo per il secondo posto. Ancora più bello. Niente tattiche. Niente conti. Eravamo solo io e lui, il dodici rosso (non avevo il ventisette quell’anno) contro il sedici giallo, anzi Gilles contro René perché le macchine sono macchine, ma sopra c’è un uomo. Ed è quel che fa l’uomo che la gente vuole vedere. Altrimenti guarderebbe delle macchine che si guidano da sole.
Oggi, a Zolder, ho di nuovo il ventisette. Le qualifiche stanno per finire. Ecco la curva del bosco. Mass mi si para davanti con la March. Potrei alzare il piede, tanto non stiamo andando forte, né io né Pironi, il mio ex amico, quello che mi ha fregato a Imola.
Chissà perché mi viene in mente Ferrari, non la macchina ma Enzo, l’unico che ho sempre avuto al mio fianco, anche dopo l’incidente con la Tyrrel di Peterson, con la Shadow di Regazzoni, quando ho voluto restare in gara con uno pneumatico sgonfio, quando ho finito la corsa con un alettone in faccia, guardando solo la traccia delle frenate sull’asfalto. Quello che mi ha detto che la mia capacità distruttiva di macinare semiassi, cambi, frizioni, freni ha insegnato alla scuderia cosa fare perché un pilota possa difendersi.
Quello che mi ha confidato che nella sua vita ha conosciuto molto dolore, ha perso sua madre, suo padre, il figlio Dino e che io per lui ero come un altro figlio. Ho avuto la sensazione che volesse dirmi di stare attento, in quel modo.
Lo alzerò, il piede. Lo farò. Un secondo dopo quanto avrebbero fatto tutti gli altri, come sempre.