Ci sono donne la cui biografia si intreccia con la storia di un Paese e ne segna le sorti. Gabriella Luccioli è una di queste. La giudice, entrata in magistratura nel 1965 con il primo concorso aperto alle donne, è stata la prima presidente di una sezione della Cassazione e, nel 2013, anche la prima donna candidata per la presidenza della Suprema Corte. Con le sue sentenze (come quella per la corretta quantificazione dell’assegno di divorzio) ha riscritto il diritto di famiglia e ha affrontato temi controversi come il biodiritto. Sua è, ad esempio, la pronuncia del 2007 su Eluana Englaro che ha sancito il diritto all‘autodeterminazione terapeutica per i malati terminali.
Ma Gabriella Luccioli è stata anche una delle prime donne nell’ambiente giudiziario italiano a riflettere sulla condizione femminile e percorrere i primi faticosi passi verso la “parità nella differenza”. “Il massimo per una donna – scrive nel suo libro Diario di una giudice – non è essere considerata uguale a un uomo. So che la stessa toga non significa dimenticare o negare la specificità del proprio genere di appartenenza”. Un genere che Luccioli ha difeso e rivendicato nonostante gli atteggiamenti a volte ostili e diffidenti di alcuni colleghi uomini.
Nel suo libro ha scritto di “aver pagato qualche prezzo per il fatto di essere donna”. Di che prezzo si tratta?
Mi riferisco al fatto di essermi dovuta confrontare, soprattutto all’inizio della mia carriera, con una realtà, se non apertamente ostile, molto diffidente e paternalista. Con il risultato che percepivo il dovere di dimostrare di meritarmi ciò che la legge già consentiva.
È stata vittima di discriminazione?
Non apertamente ma ci sono state molte occasioni in cui ho sentito il peso di lavorare in un contesto maschile. Si tratta di episodi che ho ripercorso nel mio libro ma sempre con un tono tra il divertito e l’ironico. Un esempio è il discorso del procuratore generale Giannantonio durante la mia cerimonia di ingresso in magistratura. Ero l’unica donna presente e lui lesse un brano in cui si diceva che le donne sono adatte solo “per il ricamo e il cucito”.
Essere stata la prima donna a ricoprire certi incarichi è stato più un onere o un onore?
Direi entrambe le cose. Essere stata una delle prime donne a entrare in magistratura e la prima a presiedere una sezione di Cassazione è stato sicuramente un grande onore e, allo stesso, un compito che mi ha impegnata tantissimo.
Secondo lei oggi le giovani magistrate vivono ancora i pregiudizi che ha incontrato lei?
Le giovani colleghe tendono a negare che esista nei loro confronti alcun tipo di discriminazione. Come se il solo fatto di essere arrivate a indossare la toga le esonerasse dall’assumersi altri oneri nei confronti della categoria. Si tratta però di un’idea che si scontra poi inevitabilmente con la realtà quando decidono di fare un figlio o, per esempio, provare a occupare posizioni dirigenziali.
Esiste quindi ancora un tetto di cristallo anche nella magistratura?
Certo. Nei ruoli direttivi le donne o non ci sono o sono pochissime. Pensi che, a oggi, le donne in magistratura sono il 52,8%, ma se si guarda ai ruoli direttivi la percentuale scende al 26%. Se consideriamo invece le presidenti di corte d’appello sono 8 su 25. Si tratta di numeri inadeguati.
Quali sono le ragioni di questa situazione?
Le ragioni sono tante. Potrei citarle il fatto che i criteri di assegnazione degli incarichi direttivi non premiano le donne. Per questi ruoli sono necessari, infatti, punteggi che solo chi non ha l’onere di occuparsi della cura di una famiglia ha il tempo e il modo di raggiungere. Ma potrei citarle anche il fatto che le colleghe sono meno propense a trasferirsi, e che concepiscono questo lavoro più come un servizio verso la collettività che come una carriera.
Parlando di conciliazione: l’Autorità nazionale magistrati ha mai affrontato il tema?
Se ne è occupata più che altro l’Associazione donne magistrato italiane (Admi) che, per anni, ha portato avanti da sola la riflessione e il dibattito su questi temi. È stata l’Admi infatti chiedere di costruire, nel 1991, i primi comitati pari opportunità al Consiglio superiore della magistratura (Csm) e presso le Corti d’appello.
Secondo lei le quote di genere potrebbero essere una soluzione?
Secondo me le quote avrebbero senso per l’elezione del Csm che attualmente conta solo una donna togata e due non togate elette dal Parlamento. Penso, per esempio, a un sistema elettorale che introduca l’obbligatorietà della seconda preferenza di genere. Un sistema che tra l’altro è stato proposto proprio dall’unica donna del Csm, a dimostrazione del fatto che serve la voce delle donne per cambiare le cose.
È questo il motivo che l’ha spinta a scrivere il suo libro?
Il libro l’ho scritto per le giovani colleghe: per far capire loro che bisogna difendere i passi fatti fino a qui. E anche per affermare il valore della differenza intesa, non come contrapposizione, ma come arricchimento. Perché è proprio la diversità dei generi che arricchisce la giurisprudenza.