Cinquantotto. Tante sono le famiglie che due anni fa hanno deciso di avviare una battaglia legale con il Comune di Torino per vedersi riconosciuto il diritto di far portare ai propri figli il pasto da casa. La “guerra del panino libero”, così il web e i giornali descrivono le tappe di una vicenda complessa e ancora aperta. Complessa perché ha in dote una discreta quantità di complicazioni. E perché sul tavolo ci sono istanze importanti, sia da parte delle famiglie che hanno fatto questa scelta sia da parte di chi, istituzioni comprese, difende la mensa pubblica. Vicenda ancora aperta perché il Comune di Torino, amministrato dalla nuova giunta della sindaca Cinque Stelle Chiara Appendino, ha fatto ricorso contro la decisione della Corte d’Appello di Torino.
Su tutto, c’è un rischio. Il rischio, forse tutto culturale, che a scontrarsi siano due modelli, uno attento alla dimensione sociale e collettiva, nonostante critiche all’offerta e oggettivi limiti qualitativi, e uno che guarda all’individuale. Lo dico subito. Mi incateno al portone di ognuna delle scuole dei miei tre figli pur di difendere la mensa pubblica. Questione di principio, certo. E pure questione di prassi quotidiana.
Il punto a mio avviso è questo: la mensa costa troppo e spesso lascia a desiderare sul fronte della qualità, cosa si fa allora? Si rivendica il diritto a fare da sé oppure ci si organizza per migliorare le cose? Gli strumenti ci sono, per tenersi i servizi e vigilare costantemente per migliorarli. A cominciare dalle commissioni mensa, attraverso le quali i genitori possono controllare direttamente cosa mangiano i bambini e come mangiano. La questione economica, invece, è più delicata, non c’è dubbio.
Dei 36mila studenti e allievi che fruiscono quotidianamente della mensa a Torino, in 3.300 portano il pasto da casa. Poco meno del 10%. Le scuole si sono organizzate, tra discussioni furenti, ricorsi, denunce, tensioni e non pochi problemi pratici. A cominciare dal luogo dove i bambini devono consumare il pasto portato da casa e dalle modalità di assistenza e controllo. Per finire ai problemi di sicurezza alimentare. Tutto questo cercando di non dividere e isolare i bambini, per mantenere la sacrosanta funzione educativa che la scuola deve avere. Sempre.
L’Ufficio scolastico regionale è stato molto chiaro: i bambini mangiano tutti nello stesso luogo, individuando comunque aree dedicate. E delle pulizie negli spazi dove si consuma il pasto da casa si occuperà il personale scolastico. Un atto quasi eroico viste le condizioni in cui versano le nostre scuole per una cronica carenza di fondi, oltre che per problemi organizzativi e di carenza di personale. Bisogna ritrovare il “senso di comunità”, scrive il responsabile dell’Ufficio scolastico regionale, “e rafforzare i valori di inclusione e coesione fondamentali in ogni progetto educativo”. Sacrosanto.
Resto convinta però che questa battaglia per il riconoscimento di un diritto individuale sia sproporzionata. Questa battaglia andava fatta con la stessa forza e determinazione per un diritto di tutti i bambini, quello di vivere in scuole sicure, pulite, con i servizi igienici in ordine. I diritti di tutti, i diritti di base, però, finiscono per esercitare meno appeal.
Il caso di Torino può diventare un caso nazionale. Si stanno preparando ricorsi anche in altre città, Milano, Lucca, Genova. C’è un movimento di genitori e famiglie molto determinati su questo fronte, che è comunque riuscito a portare a casa il riconoscimento della loro istanza, allargata a tutte le famiglie che hanno aderito. Ma dove ci porterà questa logica?