Femminicidi, vive e morte le vittime sono le grandi assenti di questa campagna elettorale

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Anche in tempo di campagna elettorale, i femminicidi non si fermano. Ad allungare la lista è Alessandra Matteuzzi, 56 anni, finita dall’ex compagno a martellate, a Bologna nell’ultimo scorcio d’estate. Il dossier del Viminale, presentato a ferragosto, ha fotografato in un anno (primo agosto 2021 – 31 luglio 2022), 125 donne uccise. E il dato è in crescita (erano 108 nel 2021). Il tema per le forze in campo non sembra però essere tra quelli prioritari. Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, parla di «campagna elettorale frettolosa e di dibattito politico in cui la violenza contro le donne è la grande assente».

I dati dicono che contiamo la media di più di una vittima, nello spazio di soli 3 giorni. L’ambito nel quale questi omicidi maturano aggiunge poi che si tratta di femminicidi, senza alcun dubbio. Sono 108 le donne massacrate in ambito familiare o affettivo, 68 sono cadute per mano di un partner o di un ex.

E l’orrore produce altro orrore. Sullo sfondo ci stanno le famiglie, quanti restano, vittime collaterali di una guerra che sembra impossibile da placare. Giovanna Zizzo è una mamma siciliana che dal 22 agosto del 2014 piange la morte di Lauretta, la figlia di undici anni uccisa a coltellate dal marito che voleva «infliggere un castigo alla madre». Roberto Russo è oggi all’ergastolo, con sentenza definitiva, dal 2019.

Alley incontra Giovanna a margine di un evento organizzato da un comune pedemontano, lei cerca di tenere alta l’attenzione. A Sant’Agata Li Battiati sul palco sfila chi resta. «Per i miei figli, sopravvissuti al massacro della sorellina, non ci sono fondi perché loro tecnicamente non sono degli orfani  – attacca Giovanna – Per noi non ci sono sostegni, di alcun tipo. Per lo Stato questi tre ragazzi semplicemente non esistono». Non le manda a dire, parla di ergastolo del dolore, nel tentativo di sensibilizzare e di chiedere giustizia anche per i vivi.

Niente di quanto fatto fino ad ora sembra bastare. Anche su questo dolorosissimo versante. Non basta la legge che dall’11 gennaio 2018 modificando il codice civile, il codice penale, il codice di procedura penale introduce una serie di disposizioni a favore degli orfani per crimini domestici. «Ancora oggi in Sicilia i figli delle donne ammazzate sono abbandonati. In altre regioni, come il Lazio, la cose vanno diversamente», Vera Squatrito insiste e domanda a gran voce che chi (come la nipotina) è stato privato della mamma – dalla mano assassina del padre – possa essere equiparato alle vittime di mafia.

La strada pare tutta in salita. Ma non si ferma – va detto – l’attività della Commissione monocamerale d’inchiesta. Istituita in Senato nel 2018, la plenaria ha appena licenziato tre relazioni nella seduta del 6 settembre scorso. L’oggetto dei lavori è uno sguardo trasversale sulle infinite sfaccettature del fenomeno: la formazione scolastica e universitaria, la comunicazione, l’attuazione delle linee guida nei pronto soccorso e il riordino della normativa in materia di violenza di genere.

La Commissione parte da un assunto che trova fonte proprio nel preambolo della Convenzione di Istanbul e arriva al cuore del problema. La violenza contro le donne, cos’è? È una storia antica «ha radici millenarie e mantiene una natura strutturale, è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne», la Relazione finale sull’attività del collegio presieduto dalla senatrice Valeria Valente (PD) chiarisce concetti tutt’altro che scontati: discriminazione e mancata emancipazione sono «meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

La relatrice Cinzia Leone (Ipf-CD), si sofferma su un tema che illumina subito un focus centralissimo. Il faro è puntato sull’educazione scolastica e sulla formazione accademica a cui, insieme alla comunicazione mediatica, è riconosciuto un ruolo fondamentale nel promuovere i cambiamenti culturali.

La Commissione richiama opportunamente e con preoccupazione l’ultimo Report sull’Italia redatto dal Gruppo di esperte e esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (comunemente noto come GREVIO): «gli stereotipi di genere negativi rimangono una problematica».

I termini della questione non potrebbero essere più chiari di così: «Le radici culturali dei fenomeni di violenza contro le donne e di violenza domestica sono estremamente complesse. Da un lato, vi è il persistente retaggio di concezioni ataviche della divisione dei ruoli tra uomini e donne, di pregiudizi sulle presunte propensioni ed attitudini “naturali” legate al genere, sulle aspettative della società nei confronti delle donne e degli uomini. Dall’altro, vi è l’emersione di nuovi e più subdoli “luoghi comuni”, che nascono dalla mancata rielaborazione delle profonde trasformazioni dei ruoli realizzate nell’ultimo secolo: si pensi alla strisciante convinzione di una propensione delle donne a “mentire” e a “sfruttare” le accuse di violenza o di molestia per secondi fini; o allo stigma nei confronti di una presunta “aggressività” femminile, percepita come disistima nei confronti dell’altro sesso».

Vittimizzazione, insomma, e rivittimizzazione: dentro e fuori le mura di casa, dentro e fuori le aule di giustizia. Un dato è certo, in fondo: malgrado l’ordinamento giuridico italiano si sia arricchito, negli ultimi anni, di una produzione corposa quanto a strumenti normativi di carattere tanto civile che penale, rimane ancora molto, moltissimo, lavoro da fare sul crinale degli stereotipi e dei pregiudizi di genere.

Fortissimo emerge – inevitabilmente – il ruolo delle agenzie educative. Tra tutte – dice la Commissione – la scuola è «il luogo privilegiato per l’educazione all’uguaglianza di genere». Il punto verso cui bisogna tendere è allora la promozione nei più giovani della «capacità di costruire relazioni basate sui principi di parità, equità, rispetto, inclusività, nel riconoscimento e nella valorizzazione delle differenze (…) L’educazione dei bambini e delle bambine al rispetto di genere e al contrasto alla violenza domestica». I modelli culturali che sottendono, promuovono, e riproducono disparità di genere nella società vanno dunque cancellati e riscritti. L’esempio è quello suggerito dall’Unione Europea.

La Commissione non risparmia poi nemmeno l’Università la quale, «per prevenire la violenza di genere, sessuale e domestica – si legge nella relazione finale – deve affrontare cambiamenti: di tipo strutturale, potenziando i propri programmi didattici e scientifici; di tipo culturale, contribuendo a cambiare mentalità discriminatorie e violente; di tipo socio-economico, inaugurando politiche inclusive a livello organizzativo e socio-culturali, sviluppando un continuo dialogo con i diversificati attori sociali ed enti presenti sul territorio».

La conclusione è evidente: un lavoro di prevenzione serve soltanto se tradotto in termini concreti. Dal Senato arriva chiaramente una spinta: abbiamo bisogno di corsi, strutturati in modo non episodico, di progetti e di servizi dedicati, tutte iniziative che potranno dare il senso e «significare il netto rifiuto della violenza di genere nell’ambito delle attività quotidiane svolte dai diversi soggetti, componenti la comunità». Ancora una volta l’invito al cambiamento che tarda ad arrivare giunge dall’organo che il Parlamento ha deputato allo studio del fenomeno. Si tratta di uno sprone tangibile che utilmente disegna strategie e azioni.

Bisognerà capire, a questo punto, quanta voglia e quanto impegno la politica del nuovo corso – quanto mai machista nella comunicazione elettorale urlata dai manifesti – vorrà dedicare alla lotta contro la violenza.

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