Revenge porn, serve una legge che sostenga le vittime e punisca le piattaforme

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Donne, ragazze. Professioniste, lavoratrici, studentesse o casalinghe. Una cosa le accomuna: le loro foto private e i loro video intimi in rete, dati in pasto da individui senza scrupoli – ex mariti, ex conviventi, ex fidanzati – ai frequentatori di pagine e gruppi dove si pratica la violenza virtuale. Corpi femminili ridotti a merce, a oggetto di scambio, pezzi di carne buttati lì sul banco da uomini che un tempo quelle donne dicevano di amarle.
Questa pratica aberrante ha un nome: si chiama revenge porn. È la nuova frontiera della violenza contro le donne, messa in atto da maschi feriti nell’orgoglio che consumano in tal modo la loro vendetta per essere stati lasciati dalle compagne. O che usano quel materiale per ricattarle. Le foto, i video sono accompagnati da nomi, cognomi e numeri telefonici delle ex, che vengono così perseguitate dagli utenti di queste perverse comunità online. Prima la gogna, poi gli insulti. Infine, le molestie. Concrete, tangibili, spesso con conseguenze fatali offline.

Un’inchiesta di «Wired» pubblicata il 3 aprile ha rivelato che «il più grande network italiano di revenge porn è su Telegram», in una chat in cui si ricorre a immagini private per mettere in scena un vero e proprio stupro virtuale di gruppo. E se il revenge porn da solo non faceva già abbastanza danni, ad aggiungere orrore su orrore arriva la scoperta che in tali pagine viene diffuso anche materiale pedopornografico. Bambine e ragazzine divengono oggetto di trattativa. Ancora peggio: a gestirla a volte sono gli stessi padri. Che in alcuni casi chiedono addirittura consigli al gruppo: «Come faccio a stuprare mia figlia senza farla piangere?».

In Italia, come in tanti altri paesi, si sono raggiunti livelli di guardia, al punto che il Parlamento ha inserito nel cosiddetto Codice Rosso una norma specifica che introduce il reato di revenge porn, prevedendo multe da cinquemila a quindicimila euro e la reclusione fino a sei anni per chi lo commette. Ma non basta, se è vero che una ragazza romana corsa a chiedere aiuto alla polizia postale si è sentita rispondere dal poliziotto di turno che non era il caso di perdere tempo per una questione che non era certo di vita o di morte. Dimenticando, evidentemente, la storia di Tiziana Cantone, che si è tolta la vita dopo che un suo video intimo era divenuto virale in rete a sua insaputa e contro la sua volontà. La condotta di quel poliziotto – che mi auguro venga fatta oggetto di un’accurata indagine interna – è purtroppo assai estesa nella società: è l’atteggiamento secondo il quale ciò che riguarda le donne può sempre aspettare.

È essenziale che la società civile, così come la scuola, i media e i partiti politici, colgano la gravità del revenge porn e uniscano le forze promuovendo una capillare campagna di informazione e sensibilizzazione sul tema, corredata di un numero verde a cui possono rivolgersi le vittime di questo crimine odioso. Sono stati lo smarrimento e la disperazione di queste donne a spingermi a presentare alla Camera una legge ad hoc che prevede due punti imprescindibili: l’assistenza psicologica alle vittime e la responsabilizzazione delle piattaforme online, senza la cui collaborazione non si riuscirà mai a debellare il fenomeno. Approvarla significa anche sanzionare pesantemente le piattaforme che non provvedono in tempi brevissimi a rimuovere video, immagini e contenuti lesivi e non autorizzati riguardanti le donne che ne fanno denuncia. Perché la rete e i social media sono una straordinaria opportunità, e non possono diventare un luogo dove commettere liberamente qualsiasi nefandezza. Quello che è reato offline è reato anche online.