Khaled, “la banalità del male” di un trafficante di esseri umani che non si sente in colpa

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Mettersi nei panni degli altri è difficile. Mettersi nei panni di un trafficante di esseri umani ancora di più. Riuscire poi a tratteggiarne le speranze e la ferocia, senza dimenticarne il vissuto e la storia, è una vera impresa. Francesca Mannocchi ci riesce in “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”, un libro che racconta la Libia dove “il potere è delle armi, di chi sorveglia strade, di chi è riuscito a entrare nei palazzi del governo con i propri uomini”. Perché “il potere è delle milizie”. Sicché “chi ha armi e soldi ha potere”. E su questo “il Paese non è cambiato. Prima era il regime di Gheddafi, oggi è il regime di tanti Gheddafi minori”. L’autrice è stata sul campo. Ha visto. E con stile asciutto ed essenziale accende un potente faro sul caos libico, sui migranti in partenza e prima reclusi, sulla morte e sulla vita. Il tutto con un ritmo incalzante e una narrazione avvincente.

Lo fa dando voce al “trafficante” Khaled. Di lui racconta i pensieri, i progetti, i calcoli, le azioni. Khaled è un  cinico. Reso tale dall’essere e dal sentirsi un ingranaggio di un meccanismo molto più grande di lui. Khaled sa che una parte dei migranti che stipa sui barconi morirà in mare. Lui però non se ne cura. E’ anestetizzato. Per sopravvivere nel girone infernale della Libia ha azzerato le sue emozioni, la sua umanità. Non prova più nulla. E così sopravvive. Così “si salva”. Come il tossico che per sfuggire alla realtà troppo dura da affrontare si rifugia nel trip della droga.

I migranti gli sono indifferenti. Sono merce di scambio. “Loro vogliono scappare –  racconta – e io li faccio scappare. E’ un accordo che serve a entrambi”. E ancora: “I negri sono la nostra garanzia di liquidità , sono il nostro cash…..Da dove arrivano? Che cosa mangiano? Da cosa scappano? Aprire la porta a queste domande – dice Khaled – è l’errore più grande che si possa commettere in Libia, insieme al mostrare  compassione. Io ormai non sento nulla. Sono salvo. Posso vederli piangere, gridare, sanguinare, attaccarsi alle mie caviglie per una tanica d’acqua per un salvagente, morirmi davanti agli occhi. Non sento nulla. Sono salvo”.

Khaled si arricchisce senza scrupoli con il business del traffico di esseri umani. E non ha nessuna pietà. L’autrice non ci risparmia neppure la scena di uno stupro. Con Khaled che, così come è prassi per guardie e trafficanti, abusa di una donna rinchiusa nei campi di detenzione (“Le ho tappato la bocca e ho cominciato a scoparla e non vedevo niente, solo un’ombra che faceva qualche mugugno che non volevo sentire”).

Alla fine di questo viaggio nell’abisso della violenza e della sopraffazione Khaled si autoassolve. Perché “la Libia è una giungla”. E bisogna sopravvivere. La madre prova a dirgli: “I tuoi soldi sono sporchi”. Ma lui non ci sta. E replica: “Che i soldi sono sporchi l’ho imparato in questa casa. Ce l’ha insegnato Gheddafi e pure la rivoluzione. Che c’è di nuovo?” Khaled non ha una famiglia disastrata alle spalle. Ha una madre con il lutto di un figlio morto combattendo, che sul comodino tiene “Le mille e una notte” e i libri di poesie. Una madre che da bambino lo “accoglieva a casa con il sorriso”. E un padre che lo ha tirato su come poteva. Ma al quale Khaled rimprovera di essere un “vigliacco”, “di aver passato la vita ad avere sempre paura”, perché “sotto Gheddafi tutti sopravvivevano narcotizzati dalla paura”. E che con il dito puntato accusa: “se sono ciò che sono è perché ho perfezionato ciò che tu hai fatto con debolezza”.

Khaled giudica tutto e tutti. La colpa è sempre e solo degli altri: del padre, di Gheddafi, della società. Lui non ha colpe. Eppure, come sa chiunque abbia fatto un qualsiasi percorso di terapia, nessuno di noi è innocente. Non può esserlo neppure Khaled. Una volta rintracciate le cause del suo malessere, ogni essere umano ha sempre un margine per scegliere il bene e il male. Nulla è ineluttabile. Ma Khaled si autoassolve con arroganza, minimizzando le sue responsabilità. E fa così una pericolosa operazione di rimozione.

A furia di relativizzare, giustificare e anestetizzare, per Khaled il bene e il male non esistono più.  Non ci sono più limiti. Non ci sono più confini. I carnefici, sia pure con tutte le loro umane sfumature, spariscono. Anche loro infatti (come i migranti in fuga) sono vittime del “sistema”. E così Khaled da carnefice, da capro espiatorio e simbolo del male, diventa una vittima innocente.

Nel libro non c’è spazio perciò per il bene, per l’amore, per il bello, per la gentilezza. Tutto affoga in un mare di cinismo.

Fino al delirio di onnipotenza narcisista finale. “Sono la sola cosa legale di questo Paese. Prendo ciò che è mio, pago a tutti la loro parte. E anche il mare si tiene una parte della mia mercanzia”. E ancora “Mi chiamo Khaled, il mio nome significa immortale. Mi chiamo Khaled e sono innocente”. Qualcuno gli spieghi che anche lui è “colpevole”.