Ami Vitale (National Geographic): “Non guardiamo al mondo con uno sguardo di paura”

Ami Vitale

© Ami Vitale

Fotografa per la prestigiosa rivista “National Geographic”, ambasciatrice Nikon, vincitrice già nel 2002 della prima edizione del premio Inge Morath assegnato dalla leggendaria agenzia Magnum, più volte premiata al World Press Photo, conquistando nella stagione scorsa il primo premio nella sezione “Natura”, Ami Vitale non è solo una delle più importanti fotoreporter a livello internazionale, ma è anche diventata un punto di riferimento capace di travalicare il solo ambito della fotografia, come testimonia il fatto che, lo scorso anno, la rivista americana “InStyle” l’abbia inserita tra le 50 “Badass Women”, donne toste che stanno cambiando il mondo.

Ami Vitale incarna un modello di persona che, indipendentemente dalla professione, dal sesso, dalle idee, dal grado culturale e da vari altri elementi identificativi, decide di svolgere un ruolo attivo nella società, facendo una cosa semplice da dirsi, ma ardua e sfidante da attuare: assumersi una responsabilità di fronte alla collettività e agire di conseguenza, il che significa recitare da protagonista sulla scena pubblica.

Il TEDx Bergamo 2019, tenuto questo marzo e dedicato al tema “Let’s Wonder”, l’ha annoverata tra i suoi relatori e le ha dedicato una mostra di sue fotografie – Storie che fanno la differenza – presso Ai Colli di Bergamo Golf: è stata questa l’occasione per entrare in contatto con lei e proporle un’intervista per Alley Oop, che si è svolta a distanza mentre Ami era impegnata in Kenya.

Cosa rappresenta per lei il riconoscimento di InStyle, che la inserisce tra le 50 “donne che possono cambiare il mondo”?

Io mi vedo come una messaggera delle storie degli altri, per questo motivo questo premio non riguarda me: sebbene sia grata per i riconoscimenti che ricevo, io so bene che i veri eroi sono le persone protagoniste delle storie che ho il privilegio di poter raccontare.

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Potrebbe riassumere per i lettori di Alley Oop come ha fatto una timida ragazza americana del Montana a diventare una famosa fotoreporter del “National Geographic”, conosciuta e stimata in tutto il mondo?

Quando ero giovane ero dolorosamente timida, impacciata e introversa, così, quando presi in mano per la prima volta una macchina fotografica, scoprii la possibilità di distogliere l’attenzione da me e di entrare in relazione con le altre persone. Mi ha responsabilizzato e, inizialmente, è stata solo un passaporto per conoscere e sperimentare le altre culture, ora rappresenta ben altro: la fotografia può agire da cassa di risonanza della voce della gente, grazie alla sua capacità istantanea di creare un contatto e unire le persone.

Lei è una fotoreporter abituata a viaggiare in tutto il mondo e si trova spesso di fronte a situazioni difficili e pericolose. La sua collega Lynsey Addario ha scritto un libro sulla sua vita avventurosa (In amore e in guerra, Rizzoli 2015). Quali ragioni l’hanno spinta a scegliersi questo tipo di lavoro? Come riesce a convivere con il pericolo, il dolore, la paura e a continuare ad andare avanti?

Continuo a fare quel che faccio perché credo di avere una grande responsabilità, un obbligo, quello di mettere in luce le cose che ci uniscono in quanto esseri umani e non di sottolineare le nostre diversità. Non possiamo permetterci di vedere il mondo attraverso uno sguardo di paura e di odio, perché se continuiamo a raccontare storie solo attraverso il paradigma della nostra scala di valori, noi giustifichiamo le divisioni attualmente esistenti nel mondo. Sono convinta che il cambiamento non si verificherà mai, senza l’empatia per coloro che hanno un punto di vista differente dal nostro. La strada che porta a incontrarsi su un terreno comune passa dal vedere noi stessi negli altri.

Dopo avere seguito, per i primi dieci anni della mia carriera, gli aspetti più impressionanti e violenti dell’umanità ho imparato che c’è sempre molto di più della sola violenza, esistono resilienza e speranza incredibili, spesso in posti che sembrerebbero “privi di speranza”. Se badassi solo alla violenza, nella migliore delle ipotesi mi farei scappare una buona metà della storia, nella peggiore quel che racconterei sarebbe addirittura una menzogna, perché c’è davvero tanto altro ed è nostra responsabilità non concentrarci su quel che ci divide, ma dare spazio anche a quel che ci unisce.

C’è un modo di fotografare al femminile? Secondo lei che differenza c’è tra un uomo e una donna fotografi?

Non credo ci sia un modo diverso di scattare, quel che cambia è il modo di avvicinarsi alle storie e la quantità di empatia nel raccontarle, perché l’empatia è la fonte della comprensione e della creatività.

Ami Vitale

© Ami Vitale

Quando è iniziato il suo amore speciale per gli animali? È accaduto qualcosa nel 2009 giusto?

È stato dopo avere fotografato una storia potente, il trasporto e la liberazione dell’ultimo rinoceronte bianco settentrionale nel 2009, che ho spostato la mia attenzione su alcune delle più coinvolgenti ma poco note storie della fauna selvatica e del suo ambiente. Così ho incominciato a capire che le storie di natura e animali selvaggi in realtà riguardano le persone. E tutte le mie storie dedicate alle persone, parlano in realtà della natura. Con 7 miliardi di noi, la natura ha un ruolo immenso e quando riusciamo a  vedere noi stessi come parte del paesaggio e della natura, allora capiamo che salvare la natura vuol dire salvarci. Oggi io uso la natura come spunto per parlare della nostra dimora, del nostro futuro e di dove stiamo andando.

La storia di Sudan è nata quando venni a conoscenza dell’idea di trasportare gli ultimi quattro esemplari viventi di rinoceronte bianco settentrionale da uno zoo nella Repubblica Ceca al Kenya. Era un tentativo disperato, l’ultima spiaggia per provare a salvare la specie: allora ne restavano solo otto esemplari, tutti in cattività. Quando vidi questa mite e mastodontica creatura nella neve, circondata da uomini e ciminiere, mi sembrò così iniquo: sembrava antica, parte di una specie che aveva vissuto su questo pianeta per milioni di anni, ma che non poteva sopravvivere all’umanità.

Sudan e altri tre rinoceronti lasciarono il Dvůr Králové Zoo in una fredda notte del dicembre 2009. Venivano trasportati nella savana kenyota di Ol Pejeta per permettergli di muoversi “liberamente” e con la speranza di farli riprodurre: l’aria, l’acqua, il cibo e, finalmente!, lo spazio dove girovagare a piacimento, secondo gli esperti avrebbero potuto stimolarli e la loro prole essere usata per ripopolare l’Africa. Se il tentativo fosse fallito, sarebbero stati fatti incrociare con il rinoceronte bianco meridionale per preservarne i geni.

Qualche istante prima di morire Sudan era circondato da gente che lo aveva amato e che aveva messo a rischio la propria vita per proteggerlo: avevano passato più tempo con lui che con i loro figli. Diedi a Sudan un’ultima grattatina sull’orecchio, lui appoggiò la sua pesante testa alla mia e… i cieli si aprirono come era accaduto nove anni prima al suo arrivo. Fu tutto silenzio, eccetto che per il verso del turaco e per il sommesso singhiozzare di coloro che lo avevano amato.

La caccia di frodo non sta diminuendo ed è assolutamente possibile, anche se non probabile, che, se la mattanza continua, questi rinoceronti – e così gli elefanti e un sacco di animali comuni meno conosciuti – si estingueranno durante la semplice durata della nostra vita. Il frangente in cui si trovano gli animali selvatici e la lotta tra i bracconieri e i rangers sempre più militarizzati sta ricevendo molta attenzione, è stato invece detto molto poco sulle comunità indigene che si trovano in prima linea nella guerra al bracconaggio e sul loro incredibile lavoro. Ci dimentichiamo spesso che i migliori protettori di questi ambienti sono le comunità locali e che i loro sforzi sono la migliore medicina contro le forze che minacciano gli animali selvaggi e il loro modo di vivere. La mia speranza è che il ricordo di Sudan serva da catalizzatore per fare aprire gli occhi agli uomini sulla realtà. Queste non sono semplicemente storie di animali selvaggi, ma sono storie che riguardano tutti noi, la NOSTRA casa e il nostro futuro. Noi viviamo in una rete complessa nella quale siamo profondamente interconnessi gli uni con gli altri.

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Che cosa cambia nel fotografare animali anziché persone?

Non molto, impariamo le stesse lezioni. Bisogna avvicinarsi sia agli uomini che agli animali selvaggi con pazienza ed empatia.

Lei ha detto che “la fotografia è uno strumento per creare consapevolezza e favorire la conoscenza fra le diverse culture”. Ci può spiegare meglio?

La fotografia è potente, trascende le barriere della lingua, per questo è diventata uno strumento per creare consapevolezza e permettere la conoscenza reciproca tra le diverse culture, comunità e paesi. È uno strumento che permette di comprendere le caratteristiche che ci accomunano, in quanto abitanti di questo mondo che ci troviamo a condividere. Dicevo prima che può amplificare le nostre voci e connettere le persone. Io mi sono fatta carico della missione di raccontare storie che ricordino a tutti noi quello che condividiamo, anziché limitarmi a enfatizzare le nostre differenze.

La fotografia è anche uno strumento che fa parte del sistema dei media: questo cosa comporta in relazione alla veridicità delle informazioni che veicola? La gente può fidarsi di quello che le foto mostrano?

Io credo che i lettori devono porsi delle domande e cercare la verità in ogni racconto. Abbiamo tutti bisogno di essere meglio educati su come e da dove provengano le notizie. Il punto chiave è abituarsi a ricercare più fonti diverse di notizie, raccontate da giornalisti e organi di stampa reputati e affidabili.

Ami Vitale

© Ami Vitale

Lei è una fotoreporter e molti di voi sono infastiditi se qualcuno parla, a proposito del loro lavoro, di arte: condivide questo atteggiamento? O apprezza se qualcuno definisce “artistiche” le sue immagini?

mi piace quando la gente considera arte le mie immagini: riflettono questo magnifico pianeta e la relazione che ci unisce tra di noi e con lui. Produrre un’immagine bella e piena di significato richiede arte e talento.