Perché abbiamo paura di un mondo senza lavoro?

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Quanti milioni di posti di lavoro ci ruberanno le macchine? Il tono di voce con cui circola questa domanda si sta alzando sempre più: i robot sono alle porte e l’intelligenza artificiale è già tra di noi. Che ne sarà del nostro lavoro e, soprattutto, del nostro reddito?

Secondo il futurologo Jerry Kaplan, in realtà quello che accadrà nei prossimi 20 anni non sarà più traumatico di quanto è successo negli ultimi 30, nemmeno in termini di trasformazioni delle professioni. Solo che aspettarlo è diverso dal guardarlo arrivare: negli ultimi decenni ci siamo trovati dentro a un’accelerazione tecnologica senza precedenti, passando banalmente da un mondo senza internet a un mondo con internet, senza averne veramente cognizione.

Oggi invece seguiamo l’innovazione minuto per minuto, domandandoci a chi toccherà restare ai margini. Chi di noi, quale delle nostre professioni, si troverà col cerino in mano? La risposta che ha dato questa settimana la deputata democratica Alexandria Ocasio Cortez a una domanda analoga ricevuta durante la conferenza SXSW fa vedere la differenza di visione tra chi dentro il flusso naviga a vista e chi invece sente di avere il potere e la responsabilità di cambiarlo radicalmente. E’ il senso della politica, la politica migliore.

L’automazione – ha detto – sta automatizzando tutto, anche l’ingiustizia. Anche la diseguaglianza economica non farà che accelerare se non aggiusteremo i sistemi sottostanti, come per esempio la distribuzione della ricchezza prodotta. Viviamo nell’era più prospera mai conosciuta dall’umanità, e dovremmo sentirlo tutti, ma non è così. La maggior parte di noi non beneficia di questa prosperità”.

Il fallimento nella redistribuzione di quanto produciamo oggi con la massima efficienza proprio grazie all’automazione è strettamente collegato alla nostra paura di non avere più un lavoro: “Dovremmo essere felici se l’automazione ci permetterà di avere più tempo per educare noi stessi, dedicarci all’arte e alle scienze, inventare, andare nello spazio, godere il mondo in cui viviamo. Non tutta la creatività deve essere vincolata al salario”. E invece siamo perseguitati dallo spettro del venir “automatizzati via dal mondo del lavoro”. Come mai?

“La ragione per cui questa prospettiva ci fa paura è che viviamo in una società in cui, se non hai un lavoro, sei lasciato a morire. E questo è, alla base, il nostro problema”.

Il lavoro dunque come fine a sé stesso (quel “lavoresimo” di cui parlavamo la scorsa settimana): già descritto nel 1970 dall’architetto e futurologo Buckminster Fuller nel suo articolo sul New York magazine, in cui diceva che “continuiamo a investire nei lavori perché inseguiamo la falsa credenza che tutti debbano essere impiegati in una qualche attività per giustificare la propria esistenza. Così abbiamo ispettori degli ispettori, e persone che fabbricano strumenti per consentire agli ispettori di ispezionare gli ispettori. Mentre la vera occupazione delle persone dovrebbe essere quella di tornare a scuola e riprendere a  pensare a qualunque cosa stessero pensando prima che qualcuno dicesse loro di andare a guadagnarsi da vivere“.

Ma perché è così? Secondo la Ocasio-Cortez, semplicemente perché è necessario alla sopravvivenza del capitalismo. Un sistema che ha il suo fondamento nella scarsità di risorse andrebbe in crisi di fronte alle potenziali risorse infinite prodotte dall’automazione. E quindi preserva la diseguaglianza economica che ne mantiene in modo artificiale la scarsità. Semplice, no?