André Kertész, lo stupore dello sguardo in mostra a Milano

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André Kertész, Il balcone, Martinique, 1 gennaio 1972 Ministère de la Culture / Médiathèque de l’architecture et du patrimoine / Dist. Rmn-GP © Donation André Kertész

Un occhio emozionato, capace di rendere vergine di stupore ogni cosa, è il dono di André Kertész, uno dei più grandi fotografi del ‘900, di cui il CMC, il Centro Culturale di Milano, presenta una grande mostra (André Kertész, lo stupore della realtà), aperta fino al 10 marzo, a cura di Roberto Mutti.

È un’occasione da non lasciarsi sfuggire: 90 opere ripercorrono la parabola di questo talento poetico ungherese, nato a Budapest nel 1898 e morto a New York nel 1985, che visse per 10 intensissimi anni – dal 1925 al ’36 – a Parigi, allora ombelico culturale dell’Europa, decidendo poi di varcare l’oceano per raggiungere la grande mela statunitense, in cui avrebbe dovuto soggiornare per una breve trasferta e che invece divenne, odiata e amata, la sua città d’elezione per i lunghi decenni di un’operosa vita.

Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima.” Questa frase di colui che è probabilmente il più grande fotografo di sempre, Henri Cartier-Bresson, è rivelatrice e spiega il debito che chiunque abbia deciso di imbracciare una macchina fotografica ha con Kertész; e infatti, molto opportunamente, prima di accedere alla mostra un video raccoglie alcune testimonianze di celebri fotografi italiani, da Ferdinando Scianna a Giovanni Chiaramonte, su cosa rappresenti per loro il maestro magiaro. Tra questi è Stefano De Luigi a richiamare la nostra attenzione su una delle celebri foto americane, in cui la scura e compatta massa verticale di un grattacielo si staglia su un cielo implacabilmente sgombro, se non fosse per una candida nuvoletta isolata, come sperduta in tutto quel vuoto, che si avvicina – o cerca di allontanarsi?-, dalla torre.

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André Kertész, Nuvola persa, New York, 1937 Ministère de la Culture / Médiathèque de l’architecture et du patrimoine / Dist. Rmn-GP © Donation André Kertész

Con un’intuizione fulminante, De Luigi suggerisce che quella nuvoletta non sia altro che un poetico autoritratto: lasciatosi alle spalle la vecchia Europa, carica di cultura, tradizioni, ombre, sfumature e reticenze, nella nuova metropoli contemporanea, senza passato, industrializzata, frenetica, governata dal culto del dollaro e dominata dal dinamismo di un ritmo produttivo che incessantemente smuove masse anonime di lavoratori / consumatori, André Kertész fatto nuvola si sottrae a quella logica, sfugge verso l’alto per osservare, stupefatto e malinconico, da un differente punto di vista, quel ribollire di una vita nuova, mai veduta prima che, di lì a una manciata di anni, sarebbe diventata il nuovo modello cui tutto il mondo avrebbe dovuto uniformarsi.

L’Ungheria del ‘900 è un’incredibile fucina di grandi fotografi: il leggendario fotoreporter di guerra e co-fondatore della Magnum Robert Capa ( Endre Friedmann), Brassaï (nome d’arte di Gyula Halász) amico e compagno di Kertész a Parigi, László Moholy-Nagy tra i protagonisti del Bauhaus, Martin Munkácsi pioniere della fashion photography, Nickolas Muray (Miklos Mandi) grande ritrattista di dive e celebrities tra cui Frida Kahlo (con cui ebbe una relazione) sono i nomi più largamente noti. È in questo ambiente che il giovane Kertész incomincia a scattare, mentre di giorno lavora svogliatamente alla Borsa: percorre le vie di Budapest non con l’occhio del reporter a caccia di notizie da giornale, bensì nelle ore notturne, sorprendendo i passanti tra gli improvvisi squarci di luce dei lampioni perché, fin da subito, è intimamente persuaso che “qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante, merita di essere fotografato, con amore.

Scoppia la Grande guerra – che condurrà alla catastrofica dissoluzione del grande Impero absburgico – e Kertész si arruola come volontario; ferito a una mano, durante la convalescenza scatta un primo importante gruppo di foto sulla vita dei contadini e su una comunità di nomadi, con uno sguardo originale, né edulcorato né folkloristico, intriso di umana simpatia e solidarietà.

Ha deciso: sarà fotografo. L’Ungheria sta diventando invivibile per chi, come lui, appartiene alla borghesia ebraica, fatta oggetto di leggi discriminatorie nel regime autoritario dell’ammiraglio Horthy: Kertész si trasferisce a Parigi (1925), dove sarà protagonista di un decennio di creatività prodigiosa.

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André Kertész, Il pont des Arts visto attraverso l’orologio dell’Institut de France, Parigi, 1929 ca Ministère de la Culture / Médiathèque de l’architecture et du patrimoine / Dist. Rmn-GP © Donation André Kertész

Nella ville lumière, a contatto con la fiorente comunità artistica cosmopolita (Picasso, Mondrian, i Surrealisti raccolti attorno a Breton, Léger, Chagall), si consolida il suo inconfondibile modo di guardare “alla Kertész”: i celebri scatti dall’alto, sovente dalla finestra di casa, che aprono punti di vista sorprendenti sui parchi innevati, le strade silenziose o lo scorrere della folla tra i ponti della Senna, oppure la geniale manipolazione delle ombre, che ora sostituiscono i sembianti delle persone e degli oggetti, altre volte disegnano inaspettate simmetrie e sorprendenti traiettorie. L’inquadratura diventa specchio di uno sguardo inaudito, sovvertimento delle abitudini percettive in analogia alla poetica surrealista, cui il nostro si accosta senza mai aderirvi. Se le distorsioni – immagini scattate con l’aiuto di uno specchio deformante – sono il punto di massima sperimentazione stilistica, nel tentativo di forzare poeticamente i confini della visione, Kertesz si dedica con impegno anche a uno dei generi fondamentali della tradizione pittorica europea, la natura morta, perché quel che conta è distillare attraverso la purezza della forma il sentimento lirico del vivere.

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André Kertész, La forchetta, Parigi, 1928 Ministère de la Culture / Médiathèque de l’architecture et du patrimoine / Dist. Rmn-GP © Donation André Kertész

Il passaggio in America si riflette anche nelle tonalità completamente diverse delle immagini: una luce contrastata, drammatica, esalta in una messa a fuoco scultorea l’anima metallica e industriale di New York in vedute di una città irriducibile alle misure della visione parigina ed europea. L’estranea vastità della metropoli americana colta dalle sensibilissime antenne di Kertész, fotografo umanista quant’altri mai, rivela la desolazione e l’immedicabile solitudine dell’uomo americano, che non trova paragoni se non nei gialli hard boiled di Chandler o negli straniati paesaggi urbani di Hopper.

Non è un caso che l’America -cui approda grazie a un contratto con la prestigiosa agenzia Keystone- per molti anni non lo capirà: le sue foto, agli occhi dei photoeditor delle riviste statunitensi, sono ribelli, cariche di un’ambiguità sgradita, e non si prestano a illustrare docilmente gli articoli dei magazines. Per questo Kertész sarà costretto a separare nettamente i lavori su commissione, che gli permettono di vivere, dalla ricerca personale, che lo conduce tra le avenues come prima tra i boulevards, alla ricerca di volti, situazioni, dettagli, scorci e luoghi della città nascosta, dove riflettere come in un specchio i propri sentimenti e pensieri.

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André Kertész, L’orologio della passerella, New York, 1937 Ministère de la Culture / Médiathèque de l’architecture et du patrimoine / Dist. Rmn-GP © Donation André Kertész

L’America lo risarcirà tardivamente, ma con ricchezza: la grande mostra al Moma del 1964 ne consacrerà la grandezza, aprendo l’ultima stagione, colma di mostre, omaggi e celebrazioni internazionali, che lo collocheranno finalmente nell’olimpo dei grandi fotografi del ‘900.

Ma nonostante la fama Kertész, cresciuto sulle rive del bel Danubio blu, resta in qualche modo un suddito dell’Impero absburgico, – luogo dove sono state scoperte alcune delle più laceranti verità sull’anima dell’uomo moderno -, testimoniando, nella sua vita come nelle sue immagini, un riserbo antico e una malinconica saggezza che non smettono di affascinarci: “Interpreto la mia sensazione in un determinato attimo. Non quello che vedo ma quello che sento, senza sentire non c’è ragione di vivere”.