Quanto ci limita il vestito che indossiamo?

“Vesto sempre in modo da non farmi notare”
“Non oso cambiare stile perché in ufficio mi hanno sempre visto/a così”
“Mi vesto così per non dispiacere al mio compagno”
“Ha sempre deciso mia madre sul come dovessi vestire”

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Sono solo alcune delle affermazioni che mi sono sentita fare da persone incontrate per il mio lavoro. Ma cosa succede quando ci si veste senza pensare al proprio reale benessere ma solo per difendersi dal mondo esterno o adeguarsi totalmente alle aspettative degli altri? Stare sulla difensiva o capitolare finendo di essere ciò che non siamo non porta nessun beneficio, anzi. Perché se è vero che gli abiti parlano di noi agli altri, spesso dimentichiamo la cosa più importante, ovvero che ciò che indossiamo influisce in modo significativo su noi stessi, agendo non solo sul nostro ‘fuori’, ma anche sul nostro ‘dentro’.

Numerosi studi condotti in campo psicologico lo dimostrano: la scelta di un capo sbagliato ha effetti molto potenti a livello inconscio: può renderci di malumore, deconcentrarci o addirittura deprimerci, mentre indossare quello giusto può farci sentire più forti o renderci più performanti (ne parla la psicologa Karen Pine, Professore alla Hertfordshire University, nel suo libro Mind What You Wear). Perché quando indossiamo un capo, inevitabilmente finiamo per adottare alcune delle caratteristiche associate ad esso, anche se non ce ne rendiamo conto.

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E’ ciò che viene definito dalla scienza come Enclothed Cognition’, grazie allo studio pubblicato nel 2012 da Hajo Adam e Adam Galinksy della Northwestern University (Illinois) e al famoso esperimento del ‘White Coat’. Nell’esperimento, veniva fatto indossare lo stesso camice bianco a due gruppi di studenti. Ad un primo gruppo veniva presentato come un camice da pittore, all’altro gruppo come un camice da medico. Tutti gli studenti furono poi sottoposti alla stessa serie test per misurare il livello di attenzione: il gruppo che indossava il ‘camice da medico’ si era dimostrato più attento rispetto al gruppo del ‘camice da pittore’. Era bastato far indossare un capo a cui veniva attribuito un certo significato per far emergere un sottile ma significativo spostamento nei processi cognitivi tra un gruppo e l’altro.

Perché l’abito può cambiare l’autopercezione della persona.

Se per esempio un individuo ha poca stima in sè o attraversa un periodo della propria vita (personale e/o professionale) non felice, e tende ad indossare ‘abiti-rifugio‘ che la nascondono o la appiattiscono o che istintivamente indossa perché già emotivamente legati a precendenti esperienze difficili, questi stessi abiti porteranno con sè cattive vibrazioni. Il continuare ad indossarli non farà che amplificare la spirale negativa nella persona stessa (anche nella postura, nello sguardo e nella prossemica) e peggiorare il feedback da parte degli altri.

Ma senza arrivare a situazioni così connotate, pensiamo solo a tutte le volte che siamo distratti o infastiditi, o ci sentiamo depotenziati a causa di ciò che stiamo indossando. Al contrario se indossiamo capi che ci aiutano a gestire l’umore e migliorarlo, ci comportiamo in un modo diverso. E quando appariamo positivi e sicuri creiamo una forte attrazione da parte degli altri innescando un ciclo virtuoso nella nostra comunicazione.

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Da dove partire per affrontare con più sicurezza il modo in cui ci relazioniamo con il nostro abbigliamento ed abbattere le possibili fonti di negatività?

Innanzitutto è necessario essere più selettivi con l’attuale guardaroba, per poter eliminare gli indumenti sbagliati senza sensi di colpa. Cominciate a chiedervi: “Chi abita nel mio armadio?” Ovvero, quali sono i capi che indosso per compiacere qualcun altro (aspettative di partner, parenti, colleghi), per riconoscenza (‘E’ un regalo, lo devo mettere’), per responsabilità (‘Faccio fatica a metterlo però l’ho pagato tanto’), per emulazione (‘Ho visto che sta bene alla mia amica’), per pigrizia (‘L’ho comprato perché la commessa ha insistito’), per affezione (‘E’ vecchio e consumato ma mi spiace buttarlo via).

E poi fatevi questa domanda: “Come vorrei che fosse il vero me/la vera me?
Ovvero, “cosa comunicherebbe di sè?”, “che aspetto avrebbe?”, “quale messaggio trasparirebbe dal suo stile?”, “quali colori, linee, dettagli lo/la caratterizzerebbero?”

Riuscire a rispondere con onestà e consapevolezza a queste due domande, vi darà il coraggio per lasciare qualcosa che vi limita e lavorare di più sui vostri desideri ed aprirvi con al nuovo con meno pregiudizi e più convinzione.