Asili: sono veramente le telecamere la risposta?

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Che cos’è la fiducia? Un atteggiamento che risulta da una valutazione di fatti, circostanze, relazioni, e che produce un sentimento di sicurezza e tranquillità. Così da vocabolario. Ogni giorno ci viene richiesto di avere fiducia, continuamente: nel passare con il semaforo verde, nel consegnare i nostri soldi a una banca, nel lasciare in un asilo i nostri figli sapendo che verranno accuditi, se non con lo stesso nostro amore, con un certo grado di dedizione professionale. Ogni richiesta di fiducia sottintende un certo sforzo da parte nostra. Più è grande lo sforzo, meno siamo disposti ad accettare le conseguenze di un errore di valutazione. Soprattutto se non ci sono stati dati sufficienti elementi per una valutazione completa.

Ecco perché non dovrebbe sorprendere il progetto di installare videocamere a circuito chiuso negli asili, misura contenuta in una recente e approvata proposta di legge. Può far storcere il naso. Può sembrare umiliante e grottesca a chi fa il proprio lavoro con l’attenzione che richiede un lavoro del genere – ed è tanta, lo sappiamo. Di sicuro non è la soluzione al vero problema. Ma risponde a una precisa domanda che nasce dopo l’ennesimo caso di maltrattamenti portato alla cronaca: perché dovrei dare fiducia?

children-cute-drawing-159823Come genitori siamo costretti a lasciare i nostri figli, talvolta molto piccoli, in asili e scuole materne. È un accordo che accettiamo, anche quando ci sembra sbagliato, ma guai a dirlo. La società ci chiede di vivere la nostra vita in un certo modo, ovvero lavorando per la maggior parte del tempo della giornata, e i nostri figli si devono adeguare.

Possiamo allora accettare l’assunto che i figli non siano nostri, ma appartengano alla società, che insieme a noi se ne assume la responsabilità. Possiamo accettare che ci venga richiesto di delegare sostanzialmente a degli estranei l’educazione e formazione dei nostri figli, emotiva e cognitiva. Ma la fiducia è gratis fino a un certo punto. Quando viene tradita, si spezza qualcosa di profondo. Ed è allora che nascono le domande, quelle sincere, quelle che vanno sotto i fatti, quelle che portano risposte più efficaci di quelle di una telecamera a circuito chiuso.

“Tutta la comunità di Pero è ferita personalmente” ha dichiarato dopo il più recente episodio di maltrattamenti la sindaca Maria Rosa Belotti. Ed è vero: non sono solo i fatti di Pero, ogni volta che un episodio come questo emerge, e accade fin troppo spesso, è sempre tutta la comunità ad essere ferita. Ma la domanda a cui non riusciamo davvero a rispondere non è tanto “Come è possibile fare una cosa del genere?”, piuttosto “Come è potuto accadere?”. Questa domanda esplicita le responsabilità della comunità, che non è coinvolta solo nel dolore post-evento, ma in tutto il processo.

Se i figli appartengono alla società, tutta la società ne è responsabile: l’intero corpo docente, i colleghi, gli assistenti precari. Il personale di servizio. I genitori. Le forze dell’ordine e l’apparato legislativo. C’è una responsabilità istituzionale e c’è una responsabilità culturale, nessuno è esente. Che protezione viene data ai genitori che denunciano? E ai bambini?

Nel caso di Pero, dalla denuncia della madre all’arresto del maestro sono passati 4 mesi. Mesi di quotidianità, di orari scolastici, di routine di violenza. Possiamo davvero permetterci di chiedere ai bambini, con le loro menti fragili e in formazione, di avere la pazienza di sopportare le tempistiche di indagine? Siamo davvero così incapaci, come persone e genitori, di farci compatti davanti all’orribile sospetto che ai nostri figli venga meno la serenità? E come esseri umani, in nome di che cosa accettiamo l’omertà quando sappiamo o anche solo sospettiamo che il pianto di un bambino in una stanza sia un pianto di sofferenza?

baby-beautiful-blur-322070Forse anche questo è un punto cruciale del discorso: a che punto siamo, oggi, con la capacità di ascoltare e comprendere i bambini? Che progressi abbiamo fatto? Che sforzi? Con fatica stiamo venendo fuori da una certa pedagogia che vede i bambini come menti vergini da programmare, ignorandone totalmente la personalità e i bisogni. Come se nascessero tutti uguali, e ci fosse un bug da correggere nel sistema di quello che piange di più.

Lentamente e faticosamente stiamo cominciando ad ascoltarli. Ad accettare che siano persone. Che esprimano una volontà. Che dietro ai loro pianti non ci siano capricci, ma bisogni concreti. Che l’educazione non sia un addestramento, ma insegnare il rispetto reciproco nella convivenza. I bambini per natura si fidano degli adulti e pensano che quello che gli adulti fanno sia giusto a prescindere. Se c’è qualcosa di sbagliato lo cercano in se stessi. Forse quindi l’unico e il più potente strumento che abbiamo in mano attualmente per proteggerli è rispettarli, per insegnare loro a rispettarsi e a riconoscere la propria sofferenza, dargli uno spazio, un valore. Non temere di esprimerla. Sapendo che dall’altra parte ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare e, soprattutto, a proteggere.