Aziende, le donne nei board fanno bene ai bilanci

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Tutta questione di margini e redditività. Provate a chiederlo ai manager, agli investitori o ai fondi chiusi che rilevano aziende. In quest’ottica le conclusioni dell’ultimo Quaderno della finanza “Boardroom gender diversity and performance of listed companies in Italy”, pubblicato da Consob, non possono passare inosservati. «Le donne possono influenzare le decisioni del board e le performance quando raggiungono una determinata massa». I ricercatori dell’authority italiana (G.S.F.Bruno -Bocconi, A Ciavarella e N.Linciano) entrano così in un dibattito globale che sta impegnando economisti da circa un decennio. E di questo si parlerà oggi in Borsa Italiana, dove saranno presentati i risultati della ricerca ma soprattutto si aprirà il dibattito sul futuro. Le donne nei cda delle società quotate italiane hanno superato il 30% grazie alla legge 120/2011, la cosiddetta Golfo-Mosca. Legge che ha comunque un termine: tre rinnovi dei board. Dal 2021, quindi, si torna alla volontarietà. Salvo poi aver inserito una raccomandazione nel Codice di autodisciplina delle società quotate. Restano fuori, eprò, dalle indicazioni tutte le società pubbliche che attualmente ricadono sotto la legge.

Questione di risultato

I primi studi avevano riguardato la Norvegia, primo Paese europeo ad aver introdotto le quote di genere nella composizione dei board. Studi che, per altro, avevano visto conclusioni discordanti, anche per il troppo breve periodo preso in esame .

In Italia, invece, per la prima volta si entra in un’analis più complessa , utilizzando modelli economici dinamici, e i risultati sono decisamente interessanti. «In particolare, quando la percentuale di donne supera un determinato threhold, che varia tra il 17% e il 20% del board, le stime evidenziano un effetto positivo e significativo su tutte le misure di performance utilizzate», si legge nella sintesi del lavoro dei ricarcatori dell’Univesità Bocconi e Consob. nel dettaglio i parametri presi in esame sono ROA, ROE, ROIC e ROS.

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La prima evidenza è che la presenza di una sola donna nei consigli di amministrazione non ha alcuna possibilità di essere incisiva o di avere effetti sui risultati dell’azienda. Le cose cambiano da due donne in su, se si tiene conto di una media dei board italiani composta da una decina di membri. Nel caso del 20% di donne l’impatto è solo sul ROS (Return on sales) ed è pari allo 0,79. Impatti tutti positivi se la presenza femminile raggiunge il 30%: +0,51 sul ROA (Return on assets), 1,734 sul ROE (Return on equity), 0,67 sul ROIC (Return on invested capital) e 6,82 sul ROS. Nella tabella a seguire l’evoluzione dell’impatto a seconda della percentuale di donne nei cda.

Vuol dire che le donne fanno bene ai bilanci delle aziende? L’equazione sarebbe abbastanza semplicistica, ma certo studi internazionali dimostrano come sia la diversity il fattore dirimente. Inoltre è da considerare l’altro aspetto preso in esame dallo studio pubblicato da Consob e vale a dire i cambiamenti dell’identikit del consigliere nei board italiani con l’aumento della presenza femminile negli organismi societari.

L’Italia fra le best practise europee

Facciamo un passo indietro. Lo studio Consob prende in esame un arco temporale caratterizzato da un cambiamento importante. Nel 2008 solo il 44% delle società italiane quotate in Borsa avevano una donna nel cda, mentre la percentuale femminile nei board era ridotta al 6 per cento. Il punto di svolta è stata l’approvazione della legge 120/2011, la cosiddetta Golfo-Mosca (da cognomi delle due prime firmatarie, Lella Golfo di Forza Italia e Alessia Mosca del Pd). La legge prevede l’obbligatorietà, per le società quotate e controllate pubbliche, di riservare al genere meno rappresentato un quinto dei posti del board al primo rinnovo dopo l’entrata in vigore e un terzo al secondo e terzo rinnovo. La norma ha portato così a un incremento del 17% delle donne nei cda al primo rinnovo e un successivo +11% al secondo. A giugno 2017, così, la percentuale di donne nelle quotate ha superato gli obblighi di legge, raggiungendo quota 33,6 per cento, fra le più alte in Europa, su un totale di 22.003 posizioni in 2.219 società.

La normativa ha avuto un impatto indiretto anche sulle caratteristiche dei consiglieri, siano essi uomini o donne. Innanzitutto le donne sono più spesso consiglieri indipendenti (70% contro il 38,8% degli uomini). L’ingresso di donne nei cda ha anche contribuito a fermare “l’invecchiamento” medio dei consiglieri: dai 57,6 anni del 2012 si è scesi a 56,6 anni. E allo stesso tempo è cresciuto il livello di educazione: fra le donne le laureate sono il 90% (66% nel 2008) e le post graduated il 26,1% (dal 12,5% del 2008). Fra gli uomini l’incremento è stato dell’8% per i laureati e del 4% per i post graduated. La media così si è assestata all’86,7% di laureati (76,3% nel 2008) e al 18,7% dei post graduated (dall’11,5%).

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Dal punto di vista professionale, invece, sono andati diminuendo i manager ed è salita la percentuale di consulenti, professionisti e accademici, anche perché la carriera delle donne ai vertici delle aziende resta complessa e il numero di manager disponibili resta ancora limitato. Certo è che le donne che detengono più di un incarico è andato crescendo, salendo dal 14% del 2012 al 30%, ma senza eccessi.

A conclusione, quindi, si può dire che la norma sulle quote di genere ha avuto impatti indiretti sulla qualità in generale dei board italiani, contribuendo così a quei risultati di redditività di cui prima si parlava. Un bel goal per la governance italiana. C’è un però. La legge ha un limite temporale: il rinnovo di tre mandati per ogni società. Nel 2021, quindi, andrà in scadenza e la domanda ora è: questo decennio sarà sufficiente ad apportare un cambiamento strutturale, tale per cui non si rischi di tornare indietro? Lo studio Consob può fornire una motivazione valida per proseguire su questa strada.