Festival della Fotografia Etica di Lodi: un viaggio nel cuore del mondo

Ami Vitale

Sezione Spazio Tematico. © Ami Vitale

QUAL E’ IL RUOLO DEI FOTOGIORNALISTI?

Che ruolo giocano nella battaglia dell’informazione dentro la quale tutti noi siamo catturati ogni giorno, bombardati da migliaia di notizie che hanno spesso il solo effetto di narcotizzare la nostra attenzione?

Il Festival della Fotografia Etica di Lodi, alla sua IX edizione (le mostre sono visitabili nei weekend di ottobre), è una delle migliori risposte a questo genere di domande. Mentre in una bellissima giornata di sole giravo per le strade del centro di Lodi, passando dallo scalone del settecentesco palazzo Barni alla deliziosa ex chiesa dell’Angelo con i suoi festosi stucchi, riflettevo su quanto sia decisivo, particolarmente oggi tra fake news e post verità, il lavoro quasi sempre oscuro dei fotoreporter: senza di loro la nostra conoscenza di quel che accade nel mondo sarebbe ancora più opaca e superficiale, ignoreremmo tante, troppe realtà, situazioni e problemi, lontani o a due passi da noi, restando vittime di uno sguardo turistico sul mondo, che ci rende facilmente manipolabili.

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World Report Award – Master Award Winner. © Paula Bronstein

Prendiamo il caso della minoranza etnica di origine indiana Rohingya in Myanmar, cui l’ONU ha recentemente riconosciuto lo status di vittime di azioni di genocidio, che hanno determinato un impressionante esodo verso il vicino Bangladesh, creando un’emergenza umanitaria tra le più drammatiche degli ultimi anni. Da poco l’attenzione dei media si è concentrata su questa situazione, mentre alcuni fotoreporter vi si sono dedicati fin dal primo esplodere della crisi nell’agosto del 2017: tra questi, l’americana Paula Bronstein, vincitrice del Master Award 2018 per il suo reportage “nella grande tradizione del miglior fotogiornalismo”. La Bronstein guarda in faccia questa realtà tragica, segue l’esodo dei Rohingya senza nascondere nulla, né dolore né morte, ma osserva sempre con un velo di riserbo, che significa “rispetto del dolore di un’intera popolazione.” Il suo occhio indugia volentieri sui bambini, vittime indifese le cui lacrime ci scuotono in profondità, ma anche capaci di giocare con spensieratezza nel campo profughi, solcando il cielo con i loro aquiloni, liberi di sollevarsi sopra tutte le brutture che li circondano.

La foresta pluviale dell’Amazzonia, il “polmone del pianeta”, non evoca forse l’idea di una terra incontaminata, popolata da tribù isolate che vivono in armonia con la natura immensa? Tommaso Protti – Spot Light Award – si incarica di demolire questa raffigurazione di cartapesta con il suo reportage Terra Vermelha, scolpito in un bianco e nero duttile, dalla luminosità ora cruda e drammatica, ora morbida e pittorica, che ci racconta con “un ritmo coinvolgente e ipnotico” la realtà delle città sorte nella giungla, vere favelas verdi dove il tasso di omicidi è il più alto del Brasile, teatro di una violenza continua per il traffico di droga e per la lotta senza quartiere tra contadini, latifondisti e popolazioni indigene per il possesso delle terre.

World Report Award – Spotlight Award Winner. © Tommaso Protti

Ma non è necessario andare all’altro capo del mondo: la giovane tedesca Nanna Heitmann – vincitrice dello Student Award – ha seguito la chiusura dell’ultima miniera di carbone della Ruhr, quella di Prosper Handel, nel corso del 2018. È la parola fine su una pagina fondamentale della storia della Germania moderna, narrata con immagini attente, analitiche, dai colori attenuati da un sottile velo di nostalgia per la vicenda umana di migliaia e migliaia di persone che hanno trascorso gran parte della loro vita a scavare le viscere della terra, centinaia di metri sotto il suolo.

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Sezione Spazio Tematico. © Wu Jingli

Lo spazio tematico di questa edizione del festival è dedicato agli animali: numerosi reportages affrontano da prospettive diverse molteplici aspetti del nostro rapporto con loro.

Un servizio terribile è quello realizzato dal reporter cinese Wu Jingli con Gli uomini dei cani, sulla barbarie dei combattimenti clandestini in Cina, ufficialmente proibiti, ma diffusissimi. Sono immagini difficili da guardare: le inquadrature ravvicinate, talvolta sghembe, dalla messa a fuoco terribilmente precisa, ci buttano addosso le scene, composte in un bianco e nero allucinato, da incubo, dove i cosiddetti migliori amici dell’uomo vengono drogati per esasperarne la ferocia e aizzati gli uni contro gli altri, in una spirale che si conclude inevitabilmente con il loro massacro. Per denaro ovviamente, ma anche per l’atroce gusto di abusare di queste creature come fossero giocattoli. Davvero stridente il contrasto con il lavoro di Silvia Amodio Human dog, alimenta l’amore, che ci fa respirare un’atmosfera rigenerante, raccontandoci invece la relazione d’amore tra uomini e donne e i loro pets, veri membri della “famiglia contemporanea, che allarga la propria struttura sociale assumendo orgogliosamente una configurazione multispecie”, come dice Paola Fossati, garante per i diritti degli animali della città di Milano.

Colombia, Puerto Giraldo, two hours from Barranquilla, 30/04/2014. Within an intensive breeding for caimans. An operator performs the cuts on the skin of a caiman just shot down. This delicate process takes place in several steps. The alligators are killed by a cut on her neck made by hand with a knife, the killing is done by a specific operator, responsible only to this task.

 Il prezzo della vanità del romano Paolo Marchetti è uno dei reportage più importanti del festival: è un lavoro giornalisticamente intelligente e accurato, che ricostruisce la filiera di produzione del pellame per il mondo del fashion e dell’abbigliamento, focalizzandosi su tre casi rilevanti, i visoni in Polonia, i caimani in Colombia e gli struzzi in Thailandia. Con uno stile narrativo elegante e implacabile Marchetti racconta in montaggio alternato le tre industrie, accostando nella parte finale, in un crescendo incalzante, foto dell’uccisione o del trattamento dei cadaveri degli animali a quelle di modelle impellicciate in passerella o di clienti che provano indumenti in pelle: è una fotografia nella quale il rigore discorsivo dell’argomentazione e la forza emozionale dell’immagine giungono a un punto di fusione ammirevole.

Il russo Nikita Teryoshin con Discendenza senza corna ci parla invece delle mucche di razza frisona, pilastro dell’industria latteario-casearia tedesca: dalle foto della pluripremiata vincitrice di concorsi Lady Gaga (!) a quelle della mappatura del genoma di ciascun singolo esemplare, fino all’allevatore che in fiera spruzza vernice spray bianca (quella per i ritocchi alla carrozzeria delle auto) sul garretto di una vacca per nascondere piccoli taglietti, abbiamo occasione di sorridere. Ma anche di riflettere se le “turbo mucche”, che producono una quantità di latte pari a 4 volte quella di 50 anni fa, certo serene e fortunate rispetto a moltissime altre specie, siano ancora animali e non macchine; i bovini che tra poco saranno fatti nascere senza corna (causa di incidenti per gli animali, dunque di danni economici) sono ancora mucche?

Dovrei parlarvi di tanti altri servizi importanti: quelli della famosa fotografa americana Ami Vitale (Storie che fanno la differenza) sul panda gigante in Cina e sull’importantissima attività del Reteti Elephant Sanctuary in Kenya, la prima riserva gestita dalla comunità locale, nonché orfanotrofio per i piccoli elefanti. Scopriremo guardando le sue struggenti foto che i giovani kenyoti hanno potuto vedere dal vivo i rinoceronti – che un tempo popolavano il paese – solo grazie alla riserva e che i guerrieri Samburu, già cacciatori di elefanti, sono ora diventati loro protettori.

Il festival è anche l’occasione di conoscere altri temi scottanti, come le molestie sessuali all’interno dell’esercito americano, argomento del pluripremiato reportage dell’americana Mary F. Calvert (La battaglia dall’interno), esempio emblematico di cosa significhi l’aggettivo etico riferito alla fotografia. Secondo la migliore tradizione anglosassone Calvert affida infatti al giornalismo “ il dovere di fare luce nei più profondi recessi dell’esperienza umana e di dare alla società uno specchio per esaminarsi”.

Mi piace concludere con il reportage realizzato alla fine degli anni ’80 dal genovese Michele Guyot Bourg (Vivere sotto una cupa minaccia) sulle persone che vivevano sotto il ponte Morandi, per ricordare il ruolo fondamentale svolto dai fotografi amatoriali, non professionisti molto spesso – ed è questo il caso – di grande abilità tecnica e formale. Non c’è bisogno di sottolineare il retrospettivo valore profetico del suo lavoro: portare l’attenzione su quel che non ci quadra nel mondo attorno a noi è un servizio civile che i fotoreporter continuano a garantirci.

Michele Guyotbourg

Sezione Uno sguardo sul mondo. © Michele Guyot Bourg