Startupper a 50 anni forse non è una cattiva idea visti i risultati

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Ho recentemente reincontrato il mio capo di quando lavoravo in Nokia: un Finlandese di nome Kimmo. Quando gli ho detto “Sono Ashoka Fellow, l’avresti mai detto?”, mi ha guardata con un’impenetrabile espressione finlandese e mi ha chiesto “Sei ancora così giovane da poter essere nominata Ashoka Fellow?”. Ovviamente no: “Non sono diventata più giovane col tempo” gli ho risposto, ma l’età non è una discriminante nel processo di selezione di Ashoka, una delle ONG più influenti del mondo, nata oltre 30 anni fa per supportare gli imprenditori sociali.

Da tre a cinque anni: ecco l’età a cui un’azienda può considerarsi startup. Sono pochissimi e volano, così come sembrano pochissimi 25 anni di età per crearne una. Eppure, secondo molte definizioni dello startupper ideale, i giovani sono “meglio”: più a loro agio con la tecnologia e “liberi da impegni familiari” che impediscono loro di prendersi dei rischi (credetemi, questo argomento è molto più attuale di quel che si pensa, anche se suona così antico). Una recente ricerca del National Bureau of Economic Research sfata però questo mito, dimostrando chiaramente che gli startupper di mezza età hanno più probabilità di successo di quelli giovani. La curva fa così: sotto i 25 anni la performance è piuttosto scarsa, migliora verso i 25 e resta stabile fino a 35. C’è poi un salto di qualità dopo i 35 anni, un ulteriore balzo a 46 anni e infine un livello costante fino a 60. Perché?

Semplicemente perché l’esperienza aiuta. Soprattutto in startup che hanno un’idea forte e qualche potenziale di sopravvivenza, e quindi possono trovarsi ad affrontare un periodo di crescita accelerata, il set di competenze a disposizione di chi decide fa la differenza. E non tutte le competenze si possono acquisire all’università. Molte vengono dall’esperienza pratica e dalla conoscenza delle dinamiche aziendali e interpersonali (nonché da una certa maturità e conoscenza di sé stessi).

Insomma da ciò che gli esperti chiamano “capitale umano”: qualcosa che per crescere ha bisogno di tempo e non solo di studio.

Che fare allora con tutti i giovani brillanti laureati in discipline imprenditoriali: preparati dalle business school (nel solo Regno Unito vi sono 64 lauree e 106 master in imprenditoria) proprio per creare unicorni? Il consiglio del World Economic Forum è che inizino la propria carriera dentro alle aziende, immergendosi in veri e propri stage di realtà. Al tempo stesso, c’è forse spazio per un’offerta formativa diretta più chiaramente a candidati di mezza età che, in una seconda carriera che sembra essere sempre più frequente, escono dalla dimensione “dipendente” per avventurarsi nella sfida imprenditoriale. Persone che hanno avuto il tempo per guardare con attenzione al mercato esistente, saggiandone vizi e virtù, e sono magari motivate – proprio da quei “carichi familiari” che i venture capital tanto temono – a creare imprese e progetti nuovi, più sostenibili e innovativi, per fare del mondo (dei loro figli e nipoti) un posto più bello.

D’altronde anche Steve Jobs, pur avendo fondato la Apple a 19 anni, ha aspettato di averne 52 per inventare l’iphone.

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