Beatrice e la nostra incapacità di liberarci dai modelli

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Sabato scorso durante il serale del programma televisivo Amici, la ballerina Lauren, che partecipa al talent ideato da Maria De Filippi, è stata attaccata dalla maestra di ballo Alessandra Celentano. Lauren, fisico e muscoli scolpiti dalla ginnastica artistica, secondo l’insegnante è in sovrappeso, non ha la forma fisica adeguata per il lavoro che sogna di fare: la danzatrice professionista. Un’affermazione forte che ha portato la ragazza a sfogarsi in diretta Tv dopo aver ballato in un modo splendido sulle note della canzone resa famosa da Marilyn Monroe “Diamonds are girl’s best friends” : «Prima di questo programma, il mio corpo non è mai stato un problema per me, mai. Dopo questa esperienza, invece è lo è diventato ed è iniziato a entrarmi in testa moltissimo. Ho sempre mangiato pasta e pane, poi ho smesso. Perché rispetto la mia insegnante, non voglio essere in disaccordo con lei. Ma devo ricordarmi anche chi sono. E so che si può ballare con qualunque corpo». Heather Parisi, giudice che valuta i ragazzi e le ragazze che si esibiscono in diretta durante lo show in prima serata, ha difeso Lauren. «Sembri una ballerina di Broadway, sei perfetta così come sei». Una frase importante. Non è giusto essere presi di mira per il proprio corpo. Una persona non deve sentirsi a disagio o si deve vergognare del proprio aspetto. La polemica scoppiata per quello che è successo a Lauren non si è placata. Perché Beatrice Inguì era appena andata via.

Aveva i capelli ricci e la pelle bianca come il latte. Sorride nelle fotografie e consegna lì tutti i suoi sogni. Voleva diventare una soprano. Cantare sul palcoscenico, vivere di musica. Eppure una settimana fa si è tolta la vita. I filmati della stazione di Porta Susa, Torino, catturano quei binari che hanno spezzato i suoi quindici anni e raccontano una terribile verità. Lo zaino di Beatrice non si è agganciato a qualcosa trascinandola sotto il convoglio, Beatrice non è inciampata, ma ha deciso di non soffrire più. Tra le pagine del suo diario c’è il suo grido d’aiuto. Un grido che a volte rimane dentro. Soffocato dalle lacrime, da un mondo che ti rifiuta perché sei troppo e mai abbastanza. «Sono troppo grassa».

Per me è una ferita che si riapre. Squarcia la mia cicatrice. Mi è bastato vedere le foto di Beatrice per capirla. Anche io al liceo avevo quello sguardo. Sorridevo, forse, anche se non lo ricordo. Ho pochissime foto di quel periodo, ma i miei occhi in profondità erano contenitori senza fondo di sofferenza. A volte penso a come ho fatto a resistere. Cosa mi ha fermato quella volta che avevo preso tutte le pastiglie di casa, le avevo frantumate e ho provato a inghiottirle. Non lo so, ho rimosso. Ma ricordo bene altro. Ero troppo grassa, mi sentivo anche io come Beatrice. Il mio corpo ribelle non era compreso. Il disprezzo e la vergogna erano le mie compagne di vita quotidiana. Non mi sentivo accettata, non mi amavo e non mi sentivo amata. Ero l’unica ragazza che i maschi non invitavano alle feste. Ho questo flash nella mente. Il compagno di scuola che organizzava i party in discoteca quando distribuiva gli inviti a tutte le compagne, non mi considerava mai, venivo saltata. Era così doloroso ogni volta che avevo smesso di vivere. Mi rifugiavo nei libri, nello studio ma non anestetizzava quella voragine terribile, infinita che mi inghiottiva. Così mangiavo, il cibo riempiva il vuoto anche se non lo faceva mai del tutto. Ero imperdonabile, mi odiavo, perché prima c’era quel corpo grande, ingombrante e poi c’era tutto il resto.

L’insegnante di filosofia una volta mi aveva redarguita. Ero seduta al primo banco e mi aveva chiesto di spostarmi perché non vedeva da dove proveniva il brusio in fondo alla classe. Io avevo trascinato la sedia e lei davanti a tutti aveva detto: «Non strisciare la sedia, con la tua stazza potresti romperla». Mi bruciano ancora gli occhi. Umiliazione. Profonda e viscerale per quelle sue parole che mi inchiodavano a un corpo, che mi seppellivano dentro quel corpo che prendeva spazio e non le lasciava a me. Io ero sommersa. Nessuno mi vedeva per quello che ero, prima c’erano sempre le mie misure, le mie dimensioni. Ora vorrei abbracciarla quella me. Dirle: «Su piccola ce la farai in qualche modo». Ne uscirai vincitrice. Ti vedranno prima o poi. Si accorgeranno che esisti. Ti accetteranno e ti accetterai.

La verità è che forse non ce l’ho fatta neanche adesso. Dentro di me è scolpita l’immagine di quella ragazzina goffa che si sentiva una paria. Una diversa. Di quella piccola donna emarginata che si era ritirata dal mondo, perché il mondo non la voleva. Quei rifiuti fatti di gesti, parole e sguardi mi hanno condizionata.

È difficile cercare di essere se stesse. È un atto di forza. Per le donne, poi, è più difficile. Il nostro corpo è ancora compresso a oggetto di conquista, strumento di prigionia che può incatenarci. Non possiamo non ammetterlo. Non dovrebbe essere così. I nostri corpi devono essere liberi, combattiamo perché lo siano davvero.

Vorrei aver incontrato Beatrice per poterle dire: sei bellissima così come sei. Diciamolo alle nostre amiche, alle nostre figlie. A noi stesse. Sei bellissima. Abbracciamole. Abbracciamoci. Perdoniamoci. Doniamo amore. Piccola Beatrice perdonaci.