categoria: In famiglia
Questo matrimonio s’ha da fare. A modo nostro



Credits: Francesca Gabriele, Lillo Montalto Monella.
Era una notte buia e tempestosa. O forse non tempestosa. Ma sicuramente faceva parecchio freddo a Londra a dicembre del 2016.
“O mi sposi o ci lasciamo”
“Va bene, sposiamoci”
Non era la prima volta che parlavamo di matrimonio. Ma è la prima volta che mi strappa un sì convinto. Ci aveva già provato almeno tre volte. A Vancouver proponendomi un matrimonio sulla spiaggia in scarpe da ginnastica e giacca di pelle con due sconosciuti raccattati dalla strada a farci da testimoni. A Milano mentre facevamo colazione e leggevamo il giornale sedute sugli scomodi sgabelli della nostra minuscola cucina. A Palermo dove i nostri amici erano eccitatissimi all’idea di organizzare il loro primo matrimonio lesbico e si divertivano a immaginare i nostri vestiti e le nostre acconciature.
Ognuno di questi luoghi presentava, di volta in volta, aspetti logistici e emotivi che rendevano la scelta di sposarci tutt’altro che poetica. Ognuna delle diverse procedure ha tutte le caratteristiche per diventare il soggetto di un film appartenente al genere “commedia romantica” su Netflix.
A Vancouver la licenza matrimoniale si compra al supermercato e costa una cinquantina di dollari. Una volta acquistata è possibile visitare il sito del comune, navigare tra i profili di chi è abilitato a officiare, fare la propria scelta basandosi su due righe di biografia. Poi si può scegliere qualunque luogo della città per la cerimonia, dalla spiaggia allo Stanley Park. Avremmo potuto semplicemente trovare due testimoni a caso.
Milano e Palermo non erano opzioni concrete, visto che in Italia il matrimonio egualitario è ancora una chimera. Avremmo dunque dovuto scegliere un altro luogo in Europa. E solo l’idea di prendere un volo con lo scopo di andarmi a sposare mi faceva perdere la poesia.
Chi mi conosce sa che sono una donna che vive di contraddizioni. Ecco, il mio rapporto con il concetto di matrimonio è sempre stata una delle mie contraddizioni principali. L’ho sempre ritenuto non necessario. “Se ci amiamo, se stiamo costruendo la nostra vita insieme, perché abbiamo bisogno di celebrare il matrimonio? Non bastiamo noi?”, mi chiedevo. Di solito le risposte a queste domande sono molto pratiche. Perché la reversibilità della pensione; perché l’assistenza in ospedale; perché la comunione dei beni. O la separazione dei beni.
Poi arriva la parte romantica di me, che ne intuisce un valore “altro”. La possibilità di condividere il proprio legame davanti alla comunità degli amici. Ma anche questo aspetto scatena problemi: chi inviti? TUTTI gli zii e cugini? Solo gli amici più stretti o anche gli amici più simpatici? E soprattutto, con che soldi ce lo paghiamo il matrimonio? Cosa diamo da mangiare a queste persone? Ma dobbiamo pagare un DJ? Avranno voglia i nostri amici e le nostre amiche di venire fino a Londra per due giorni, in una delle città più care d’Europa?
Senza contare la domanda più difficile di tutte: come ci vestiamo? Come faccio io a fare i conti con l’immaginario cattolico incardinato a tal punto nel cervello da non permettermi di immaginarmi una sposa diversa da una sposa in abito bianco? Io che l’unica gonna che metto è quella cortissima di jeans, e solo se accompagnata dalle Doctor Martin’s? E neanche molto spesso a dire il vero.
E le fedi? Entrambe ormai siamo affezionate a quei due anelli con la pietra nera. Quello di Emma ha un disegno liscio, il mio ha degli intarsi. Li abbiamo comprati al Gran Bazar di Istanbul e scelti come nostro simbolo quando nel 2013 ci siamo iscritte al registro delle unioni civili del comune di Milano. Non ci era bastata quella bella esperienza con il Signor Reginella a sancire la nostra unione, compreso il bicchiere di vino offerto agli amici alla Cantina di Manuela?
Quindi, eccomi lí, in quel dicembre 2016, immersa in una sostanziosa situazione First World Problem. Dilemmi, scelte da fare, scenari politici dei diritti civili da analizzare, un terreno ancora poco esplorato, dove alcuni degli appigli e dei riferimenti culturali in cui sei cresciuta – l’abito bianco, il tavolo dei parenti, …Nella Buona e Nella Cattiva Sorte… – si contrappongono con le immagini viste in qualche film: le due spose in bianco, la torta nunziale dai colori arcobaleno con tanto di sposine di zucchero. Il waltzer con il padre da una parte e gli amici che ballano sulle note di YMCA e A far l’amore cominicia tu di Raffaella Carrá dall’altra. In mezzo a questa ridda di apparenti contraddizioni ci sono io, il mio rapporto di 5 anni e mezzo e la domanda che martella nella testa: “Questo matrimonio s’ha da fare?”
Londra, come accaduto altre volte nella mia vita, mi aiuta a trovare le risposte che sto cercando. Una ricerca su Google su “come sposarsi” e tutto diventa facile. Basta recarsi al Register Office a Peckham, e richiedere la licenza matrimoniale e scegliere la data.
Già che siamo lì chiediamo di dare un’occhiata alla sala delle celebrazioni: è perfetta. Un sala che ospita quaranta persone, grandi sedie di legno, un tavolo con dei semplici fiori, e una grande finestra georgiana che affaccia sul piccolo giardino al cui centro campeggia una fontana. Non abbiamo dubbi, è facile, è bello, costa poco.
E poi andiamo a ritroso: dobbiamo cercare il luogo per i festeggiamenti. Serve trovarlo per poter comunicare agli amici la data e il luogo del matrimonio. Decidiamo di fare all’inglese. Un pub che serva del buon cibo e possa ospitare non più dei 40 amici che assisteranno alla cerimonia. Iniziamo due settimane di tour di degustazione. Una sera siamo con Elisabetta in uno dei pub candidati per l’Operazione Matrimonio. Le raccontiamo le nostre ansie: chi invitare, come fare le partecipazioni, la scelta della torta. E da lei arriva l’altra risposta che stavamo aspettando: “È il vostro matrimonio. Le persone che ci saranno saranno qui per voi. Non c’è niente di sbagliato. Dovete fare quello che piace a voi”.
Da quel momento sgorga solo la nostra personalità. E imparo che un matrimonio lesbico ha un grande vantaggio: non c’e’ nessuna tradizione scritta in secoli di storia. Possiamo, dobbiamo, solo fare le cose a modo nostro. Iniziano alcuni dei mesi più divertenti della nostra vita. Le partecipazioni create usando una cartolina della famiglia reale. Ne acquistiamo un blocco in un negozio di gadget in Oxford Street. La bomboniera creata online da Emma disegnando un magnete da frigo con la semplice scritta Your First Lesbian Wedding. L’assemblaggio della playlist di Spotify creata con l’aiuto di un’amica che ci aiuta a armonizzare i miei gusti discutibili e ripetitivi, con il sapore indie rock della mia futura moglie. Il mio vestitino bianco comprato online, il sabato prima del gran giorno. La scelta di lasciare perdere la torta nunziale che stava venendo fuori più gotica di Johnny Depp in un film di Tim Burton e semplicemente chiedere alla manager del pub di dire al cuoco di preparare 40 tortini al cioccolato. L’esperienza di andare a farmi mani e piedi al piccolo centro estetico dietro casa il giorno prima della cerimonia. E ritrovarmi poi a percorrere i 150 metri per tornare a casa con le infradito fornitemi dall’estetista ai piedi e le Doctor Martin’s in mano. Che io mica lo sapevo che quando ti fai la pedicure poi non puoi rimettere subito le scarpe.
Fino ad arrivare alla perfezione imprecisa del 25 marzo. Il taxi che non arriva a prenderci a casa. Cercare un Uber con le mani tremanti e il terrore di arrivare in ritardo. Aspettarsi di arrivare e trovare gli amici già seduti nella sala della cerimonia, e invece fermare la corsa di fronte a un muro gioioso e colorato di sorrisi nel cortile del Register Office, perché la cerimonia precedente sta finendo in ritardo. L’amica che ha il compito di premere “play” per far partire la canzone che accompagna il nostro ingresso, Un Uomo di Eugenio Finardi, che la fa partire due volte. La stessa amica che, presa dall’emozione alla fine, della cerimonia non riesce a far partire in tempo Friday I am in Love dei Cure, per il gran finale. Voltarsi a guardare quegli amici meravigliosi ed esultare e gioire con loro. Mentre noi ci teniamo per mano.
Il sole splendente di Londra, bella come può sa essere in un giorno di primavera. La limousine bianca prenotata dalla famiglia nigeriana che si sposa dopo di noi, dentro alla quale troviamo una delle nostre invitate a farsi i selfie e bere gin. Quella sensazione di non riuscire a passare abbastanza tempo a tutti i tavoli, con tutti gli amici che sono venuti da mezza Europa per unirsi a noi. Il sollievo di vedere che le persone che abbiamo conosciuto nelle nostre vite da sole e insieme si piacciono e si divertono tra loro, come se si conoscessero da una vita, come se ci conoscessimo tutti da una vita.
A un certo punto sono al tavolo Trainspotting: c’é chi é arrivato da Barcellona, chi da Roma, chi da Milano dopo un periodo in Sierra Leone, chi vive a Londra. Li guardo. Ormai le guance mi fanno male per le risate di tutta la giornata. Per non parlare dei piedi, negli stivaletti neri comprati per l’occasione. E penso che tante persone che mi vogliono bene, tutte insieme, tutte in una volta, le avrei potute vedere solo per il mio matrimonio. O per il mio funerale. E sono felice che sia la prima situazione. Io una felicità così grande, tutta insieme, non pensavo potesse essere vissuta. E a fine serata, mentre fumo una sigaretta fuori dal pub, con l’aria che sale ormai fredda dal Tamigi, torno alla realtà, alla consapevolezza che ci sono Paesi dove due donne, dove due uomini, non possono sposarsi. E ancora una volta penso a come sia possibile che ci sia qualcuno, seduto in un Parlamento, che si possa arrogare il diritto di negare questa felicità pura.
E mi ritorna in mente la frase di Michel Foucault che ritrovai qualche anno fa nel libro collettivo Le Cose Cambiano, “Se si vedono due omosessuali, o meglio due ragazzi che se ne vanno insieme a dormire nello stesso letto, in fondo li si tollera, ma se la mattina dopo si risvegliano con il sorriso sulle labbra, si tengono per mano, si abbracciano teneramente, e affermano così la loro felicità, questo non glielo si perdona. Non è la prima mossa verso il piacere ad essere insopportabile, ma il risveglio felice”. Quel risveglio felice che sfugge alle regole della tradizione, che ti libera dagli obblighi sociali. E che spinge anche chi è vicino a te a immaginare altri modi di compiere i grandi passi della vita. Quel risveglio felice che ti fa essere individuo e coppia. Che ti libera anche dalla biologia.
Da quando mi sono sposata penso a come il fatto di aver trovato Emma, e non Emmo, mi stia dando una totale libertà. Abbiamo avuto il matrimonio che volevamo, dandoci la possibilità di sentirci libere da ogni imposizione. E non dobbiamo sottostare all’orologio biologico. Non dobbiamo spiegazioni a nessuno sul perché non vogliamo figli. Certo, potremmo volerne. Ma non c’è vincolo, non c’è aspettativa. Nessuno si sorprende se il nostro figlio è digitale, è una startup, e si chiama Bekudo. Che vuol dire “Essere Ovunque”. Perché chi era a quel matrimonio veniva da ovunque. Perché chi era al nostra matrimonio conosce il valore dell’essere chiunque, essere ovunque, essere semplicemente noi stesse. Vergognosamente sveglie e felici.