L’insegnante è per forza donna?

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“Negli anni 60 in Italia, per una donna, il lavoro di insegnante era ancora uno dei pochi consentiti dalla famiglia, approvati e incoraggiati dalla società”. Mia madre insegna da quarant’anni nella scuola primaria e quando stavo per entrare anche io nel mondo dell’insegnamento e le chiesi cosa l’avesse spinta a diventare maestra mi colpì questa sua risposta. L’insegnamento era visto come un mondo adatto alle donne, soprattutto per i bambini più piccoli. Oggi, a distanza di quarant’anni, il mondo del lavoro al femminile è molto cambiate, gli stereotipi forse ancora no.

Nel corso degli anni si è registrata una lenta ma costante e progressiva ascesa della presenza femminile nelle scuole, tanto che l’OCSE è arrivata a evidenziare un notevole squilibrio di genere nel settore dell’insegnamentoIn particolare, in Italia le donne docenti, considerati tutti gli ordini di scuola, sono oltre l’80%. Non solo. Un altro importante dato emerso è quello relativo alla tendenza futura: il numero di presenze femminili in ambito scolastico è destinato ad aumentare, considerando la quantità considerevole di ragazze prossime alla laurea in materie psico-pedagogiche e in scienze della formazione. Rispetto alla media internazionale e considerando i Paesi più industrializzati, il corpo docente italiano risulta, insomma, il più “femminilizzato”.

Negli scorsi decenni, sicuramente, il lavoro di docente è stato considerato il più “consono” a una donna, per via dell’orario ridotto, che poteva consentire ad una lavoratrice, di occuparsi delle faccende domestiche e di dedicarsi alla famiglia. Negli ultimi anni, però, il compito dell’educazione dei figli si è decentrato, diventando funzione di entrambi i genitori, impegnando, in molti casi anche nonni e babysitter. Inoltre, la scuola, ha subito una netta trasformazione, attraverso le riforme che si sono successe: tempo prolungato, riunioni settimanali di programmazione didattica, corsi di aggiornamento e formazione professionale, progetti extracurricolari. Insomma, con l’autonomia degli istituti scolastici, il lavoro del docente risulta notevolmente cambiato, con un impegno, relativo alla quantità, decisamente aumentato.

Dove risiedono allora le motivazioni di questo sovrannumero di maestre? Scarso appeal sociale, stipendi inadeguati, scarsa possibilità di carriera e avanzamento professionale, tra le cause più note. Ma credo che la componente che più di ogni altra e più diffusamente abbia prodotto più maestre che maestri, sia da ricondursi ancora ad una concezione stereotipata dei ruoli, dei modelli di genere secondo cui la donna sia “naturalmente portata all’accudimento”, all’istruzione, all’educazione e alla cura dei bambini, oltre ad avere “doti innate” come la pazienza, la dolcezza, insomma, il classico “istinto materno”.

E questo ce lo confermano altri dati molto interessanti. Perché se nella scuola dell’infanzia la presenza femminile, secondo i dati del MIUR, è quasi totalitaria con uno 0,6% di maestri, la percentuale maschile sale al 3,6% nella scuola primaria (in un mondo ancora di maestre, quindi) ma i cambiamenti più rilevanti si hanno andando avanti con l’età degli alunni. Nelle scuole medie i professori uomini sono il 22%, percentuale che sale al 35% nelle scuole superiori e volta al 65% all’università, tra docenti e ricercatori.

Ma è proprio vero che per insegnare ai bambini più piccoli occorrano doti considerate “femminili”? E che per gli alunni e gli studenti più grandi servano competenze considerate “maschili”? E queste “doti” sono davvero appannaggio del genere maschile o femminile o non hanno forse a che fare con risorse personali e qualità di ognuno, a prescindere dal genere?

In più, se la società cambia, anche la scuola non è più la stessa. Pensiamo alla stessa scuola materna, ora denominata “scuola dell’infanzia”, che è diventata non solo luogo di cura e accudimento, ma luogo di apprendimento, di competenze, con programmi specifici e traguardi di sviluppo, introduzione di nuove materie, come la seconda lingua e la tecnologia. E anche alle scuole primarie un insegnante, oltre ad avere competenze in ambito pedagogico e psicologico, deve saper motivare, interessare e stimolare, deve conoscere l’empatia e saperla sfruttare, deve saper lavorare in gruppo, suggerire strade nuove, sviluppare il problem-solving. Non si tratta, quindi, di doti innate, ma di esperienze e competenze sviluppate sul campo, attraverso il lavoro e lo studio. Bisogna interrogarsi davvero su quanto pesi nella prima formazione, l’assenza di una sana mescolanza di generi.

Bastava farmi una chiacchierata con mio padre, in fondo. “Credo che non ci siano differenze sostanziali nella capacità di insegnare tra uomo e donna”, mi dice. Lui è insegnante di scuola primaria da più di quarant’anni che è vissuto in un mondo lavorativo tutto al femminile. Un maestro che fa parte di quel piccolo 3,6% della casistica italiana. “Non mi sono mai sentito a disagio con le colleghe, anzi. Posso dirti – sottolinea convinto – che i moduli che funzionavano meglio erano quelli formati da uomini e donne”. In più, “se avessi vinto il concorso nella scuola materna, avrei insegnato lì. Certo, avrei dovuto migliorare nel canto!”.