La Supercoppa nel Paese che discrimina le donne

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Le proteste non hanno sortito l’effetto sperato. Oggi le squadre di calcio italiane Juventus e Milan si affronteranno scendendo in campo a Jeddah in Arabia Saudita per la partita che assegnerà la Supercoppa Italiana. Nonostante le fortissime polemiche delle ultime settimane nate quando è iniziata la vendita dei biglietti per assistere a questo match.

Nel King Abdullah Stadium le donne sono confinate in un settore, quello dedicato alle famiglie, mentre gli uomini possono accedere sia a quest’ultimo che ad altri settori “singles” interdetti alle donne. L’indignazione generale si è sollevata anche nel mondo dello sport con flash mob e decise prese di posizioni davanti alla disparità di un Paese che calpesta ogni giorno i diritti delle donne.

La Lega calcio serie A ha diffuso un comunicato in cui ha spiegato le ragioni per cui non cedeva alle pressioni di chi chiedeva di non giocare in uno dei luoghi più misogini del mondo. Il presidente Gaetano Miccichè ha motivato il diniego a spostare in un altro luogo la partita ricordando che: “L’Arabia Saudita è il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale grazie a decine di importanti aziende che esportano e operano in loco, con nostri connazionali che lavorano in Arabia e nessuno di tali rapporti è stato interrotto”. Lo sport, per la Lega, non si deve occupare di politica, si legge nella nota in cui viene sottolineato: “Fino allo scorso anno le donne non potevano assistere ad alcun evento sportivo, da pochi mesi hanno accesso ad ampi settori dello stadio, che hanno iniziato a frequentare con entusiasmo, e noi stiamo lavorando per far sì che nelle prossime edizioni che giocheremo in quel Paese possano accedere in tutti i posti dello stadio. E voglio precisare che le donne potranno entrare da sole alla partita senza nessun accompagnatore uomo, come scritto erroneamente da chi vuole strumentalizzare il tema: la nostra Supercoppa sarà ricordata dalla storia come la prima competizione ufficiale internazionale a cui le donne saudite potranno assistere dal vivo”.

Ben diversa la posizione di chi si è opposto e continua a organizzare sit-in di protesta come quello che si sta svolgendo oggi, a poche ore dalla partita (verrà giocata quando saranno le 18.30 in Italia) davanti alla sede dell’Ambasciata dell’Arabia Saudita a Roma: “In cambio di sette milioni di euro, offerti alla Lega Calcio dall’Arabia Saudita, calerà il silenzio sulle bombe – anche italiane – che da quattro anni massacrano la popolazione civile dello Yemen; sull’impiego dei bambini soldato in quel conflitto; sul brutale omicidio nel consolato saudita di Istanbul in Turchia del giornalista Jamal Khashoggi, per il quale è sospettato come mandante direttamente il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman; su uno stadio con settori riservati agli uomini; su un paese dove i diritti delle donne sono ancora oggi calpestati e molte attiviste sono in carcere“ hanno dichiarato Usigrai, Fnsi, Ordine dei giornalisti, Articolo 21 e Amnesty International Italia.

È solo di recente che le donne in Arabia Saudita possono accedere agli stadi. Nei giorni scorsi è arrivata un’altra notizia è arrivata dal Paese riguardo al trattamento riservato alle donne. Questa volta non tanto per la vita pubblica, quanto per quella privata: a partire da questo mese, le saudite saranno avvisate con un messaggio sul cellulare se i loro mariti hanno deciso di divorziare. Prima non ricevevano nessun tipo di comunicazione. Quelli che all’apparenza possono sembrare piccoli passi avanti, però, in realtà non modificano i diritti delle donne che rimangono inesistenti.

L’Arabia Saudita è al 141’ posto su 149 dell’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum. Le donne in questo Paese sono considerate eterne minorenni. Ognuna di loro è sottoposta al controllo di un “guardiano”, un uomo della sua famiglia, che supervisiona tutti gli aspetti principali della vita e ha potere sulle decisioni più importanti come lavorare, studiare, sposarsi, divorziare.

Questo sistema impedisce alle vittime di violenza domestica o abusi sessuali di chiedere giustizia, perché la polizia esige che le donne e le ragazze ottengano l’autorizzazione del loro tutore per presentare reclami o denunce. Le donne non possono viaggiare da sole e nei luoghi pubblici vige la segregazione di genere.

La mentalità patriarcale le considera come proprietà che appartiene allo Stato e alla famiglia. E ogni tentativo di ribellione è punito con la violenza. Le ultime concessioni sono delle piccole aperture in dei muri che continuano a imprigionare quotidianamente le donne. Non sono diritti riconosciuti, ma doni concessi dal governo che controlla ogni cosa. Sono astute mosse di facciata compiute dal principe ereditario Mohammad Bin Salman che si è proclamato un modernizzatore. Un po’ di pinkwashing (l’utilizzo dell’emancipazione femminile o di prese di posizione a favore delle donne per fini commerciali) è stato utile per siglare nuovi accordi con i partner internazionali per perseguire il raggiungimento di uno degli obiettivi del principe saudita: ridurre la dipendenza economica dal greggio.

Lo scorso giugno l’abolizione del divieto di guida delle donne saudite, arrivato per far entrare le donne, che sono in media più istruite degli uomini, nel mondo del lavoro e sfruttare così la loro produttività per far crescere il Paese, ha coinciso con una violenta repressione scatenata sulle attiviste femministe. Queste donne sono rinchiuse nel carcere che si trova a Jeddah, la città in cui si disputa la Supercoppa.

L’attenzione internazionale, però, è alta. The New York Times ha raccolto in questi giorni l’appello di Alia al-Hathloul, sorella dell’attivista Loujain al-Hathloul che si trova in arresto con altre donne e uomini che hanno lottato contro quello che è un vero e proprio apartheid di genere.

Quando il governo saudita ha annunciato che il divieto di guidare per le donne sarebbe stato rimosso, l’attivista – racconta la sorella – ha ricevuto la chiamata di un funzionario della corte reale che le impediva di commentare o parlare di questo sui social media. Per sfuggire al divieto si è trasferita negli Emirati Arabi Uniti, ma è stata arrestata e si trova ancora in stato di detenzione. È stata torturata, picchiata, sottoposta a scariche elettriche e molestata sessualmente.

rafasI social network sono considerati pericolosi dall’Arabia Saudita perché una nuova generazione di donne usa la tecnologia per raccontare le loro storie. È proprio in questi giorni la vicenda di una ragazza saudita ha fatto il giro del mondo. Rahaf Mohammed Al-Qunun è la coraggiosa giovane donna che ha usato Twitter per chiedere aiuto. Diciotto anni, nata ad Hail città nel nord dell’Arabia, Rahaf ha combattuto per affermare la sua indipendenza.

rafas2In fuga da una famiglia che le negava la libertà, è scappata durante una vacanza in Kuwait riuscendo a imbarcarsi su un aereo per la Thailandia. Sperava di ottenere un visto e chiedere poi asilo in Australia. Ma al suo arrivo a Bangkok, il 5 gennaio scorso, è stata fermata e confinata in un hotel di una zona di transito dell’aeroporto in cui si è barricata. Non voleva essere ricondotta indietro contro la sua volontà. I suoi appelli non sono caduti nel vuoto. Subito si sono interessati a lei giornalisti, scrittrici e le organizzazioni internazionali che difendono i diritti umani. Rahaf ha subito ripetuti abusi. Picchiata dai maschi della sua famiglia, ha tentato il suicidio e una volta per essersi tagliata i capelli, è stata rinchiusa per sei mesi in una stanza. «L’Arabia Saudita è come una prigione. Non posso prendere le mie decisioni. Le ragazze saudite sono schiave» ha affermato Rahaf che è stata considerata dall’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) una rifugiata legittima.

rafas3Il Canada e il primo ministro Justin Trudeau hanno accolto la richiesta dell’Onu e hanno aperto le porte a Rahaf concedendole asilo.  «Dovrei poter vivere da sola, liberamente, indipendentemente da chi non rispetta la mia dignità» è una delle dichiarazioni rivoluzionarie di Rahaf. «Tutte le donne in Arabia Saudita dovrebbero essere le tutrici di se stesse» ha scritto la femminista Mona Eltahawy che in uno dei suoi articoli ha raccolto il racconto agghiacciante di un’attivista saudita: «Un sociologo saudita stima che oltre 1.000 donne fuggano dal regno arabo ogni anno. La maggior parte delle giovani donne sono in centri di detenzione. Vengono condannate per accuse di moralità come essere state sorprese in compagnia di un maschio estraneo, sono accusate di scappare di casa o disobbedire ai genitori. Questo viene trattato come un crimine che richiede la detenzione immediata in Arabia Saudita. La cosa più orribile è che una volta che una donna è rinchiusa in una qualsiasi istituzione statale non sarà rilasciata se non sotto la custodia di un parente maschio, altrimenti resterà per sempre in prigione o in un centro di accoglienza».

Rahaf è una sopravvissuta. È riuscita ad affermare la sua libertà e ora spera che la sua storia possa ispirare altre ragazze. Confida in un cambiamento possibile e nella forza rivoluzionaria di un coraggio può essere straordinariamente contagioso.