Tre cose che fanno di te un pessimo padre

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Sara ha 11 anni, una ragazzina come tante e diversa da tutte. Ama i cavalli e gioisce quando respira la terra del campo d’equitazione. Il suo maneggio è lontano dalla città, ma ha grandi camerate, una cucina e quindi organizza fine settimana d’immersione totale e, d’estate, anche intere settimane.

Al termine di uno dei fine settimana, il più tiepido d’ottobre, Sara è triste perché non ha voglia di lasciare le compagne, i cavalli e quel posto lì. Triste come le ragazzine sanno essere, silenziose e uggiose, una promessa di adolescenza. Arrivano i genitori. Il padre mostra un interesse lasco per le cose che stanno intorno e che riempiono le attenzioni di Sara. Ha fretta di andare, di tornare in città, ma deve pagare e la maestra è impegnata a fare lezione. Costretto dal tempo – che lui dice perso – comincia a parlare.

Insiste con Sara che “si dice cavezza e non capezza” e che chi l’ha insegnato è un ignorante (*) e tronca il discorso perché “se dico cavezza, è cavezza, senza discussioni, con me puoi utilizzare solo cavezza”. Non soddisfatto, apostrofa la maestra di equitazione con svariati “ragazza” per ottenere la sua attenzione e pagare, e finalmente andarsene.

Indispettito dai tentativi falliti, se la prende con la figlia che non ha verve [sic], che non mostra sufficiente gratitudine e dedizione al padre che le ha offerto “tre giorni con le amiche, nella natura, a 150 euro”. “150 euro” ripete, poi si allontana. Sara mormora alla madre “che rompipalle” e lei si porta l’indice al volto e le suggerisce di fare silenzio. Poi l’abbraccia e – forse inconsapevolmente – cerca di trasmetterle lo stigma secolare della sopportazione femminile.

Mentre si allontana, guardo le spalle dritte di questo padre ben vestito, giovanile, e penso che ha saputo fare peggio di tanti padri assenti, che non ci sono mai e che quando ci sono è come se non ci fossero, persi nei pensieri, negli smartphone o in entrambi. Ha saputo essere avversativo, disinteressandosi di tutto quello che a Sara sta a cuore, sostenendo di saperne più di lei, anche se si parla di quel mondo che ama. È stato autoritario, imponendo la sua opinione, la sua figura come l’unica degna di rispetto, attaccando chi gliela contendeva, la maestra di equitazione, nient’altro che una “ragazza”. Ha preteso gratitudine pesandola con denaro.

Secondo il Journal of Marriage and Family nel 1965 i padri spendevano in media soli 16 minuti al giorno con i loro figli, mentre oggi arrivano a quasi 59 minuti. Chissà cosa ne pensa Sara di questo progresso.


(*) Cavezza è il finimento generico di animali da soma, capezza è il termine tecnico usato nella selleria per cavalli.

  • Graziano |

    Le aziende hanno bisogno di gente che lavori, non che passa il tempo a casa con figli

  • Maria Stefania |

    Perché la mamma di Sara lo permette? Perché non paga lei il corso o le propone qualcos’altro alla sua portata economica? Lo scrivo in un momento difficile: ho sempre lavorato pur avendo fatto figli e ora sono a casa perché l’azienda per cui lavoro è fallita. Sto cercando. Cosa odio di più? Essere mantenuta da mio marito (che pure è persona fantastica non come questo signore qui descritto). Le aziende devono iniziare a pagare le donne come gli uomini ma le donne devono lavorare, non ci sono scuse

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