Part-time, un danno per lavoratori e aziende?

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Un recente articolo del Financial Times intitolato “C’erano una volta due banchieri” punta il dito senza mezzi termini su una verità troppo spesso non detta: le donne non “scelgono” di guadagnare meno dopo la maternità. Nella storia narrata dal quotidiano inglese si fa riferimento in particolare al part time, e a come questo condanni chi lo sceglie a bloccare la progressione della propria carriera e del proprio reddito, indipendentemente dalle reali capacità della lavoratrice, e anche dai suoi risultati.

La scelta del part time sembra essere una “scelta di campo”: stai privilegiando altro, quindi disinvestendo nel lavoro, facendo un passo indietro che non recupererai mai più.

Succede perché stai riducendo la qualità dei risultati? Oppure perché sei meno disponibile, meno “dedicata”? No, non c’è una valutazione reale dietro alle conseguenze negative che un part time ha sulla carriera: considerare le persone part time come “lavoratori parziali” è un automatismo di carattere culturale. Proprio mentre si parla sempre di più di smart working e mentre le ricerche dimostrano che, per oltre la metà delle professioni, la produttività non è una misura del tempo, ma entrano in gioco molti altri fattori.

In Italia, il 18,5% delle persone ha un contratto a tempo parziale. Chi sono? Solo l’8% dei lavoratori uomini e oltre il 30% delle donne. In due casi su tre non è una scelta, ma l’unica soluzione disponibile. Nel terzo caso, forse anche su questo possiamo dirci le cose come stanno, la “scelta” dipende da motivi familiari che non hanno altra soluzione. Quindi, lavora part time una donna su tre – teniamo presente che la base di partenza è un’occupazione femminile sotto al 50%, quindi lavora solo una donne su due di quelle che vorrebbero farlo, mentre ce ne sono altrettante che il lavoro nemmeno lo cercano, le cosiddette “inattive”, e così le donne che non lavorano finiscono con l’essere tre su quattro.

La conseguenza? Dal punto di vista delle lavoratrici, diminuisce il reddito, con impatto che si protrae e amplifica negli anni: nel Regno Unito, hanno misurato un divario salariale causato dal part time della maternità che, dal 4% registrato subito dopo la nascita del figlio, arriva al 30% quando il figlio ha 20 anni. Senza contare che spesso il part time comunque finisce per durare 8 ore. Dal punto di vista delle aziende, lo “stigma” del part time porta a sottovalutare e quindi a utilizzare poco e male le risorse a disposizione perché etichettate – inconsapevolmente – come non disponibili a crescere, anche se presenti al lavoro 4 giorni su 5.

Una situazione loss/loss (ossia dove “perdono tutti”): un altro di quei fattori che il nostro Paese non può più ignorare, specialmente quando si parla di parità genitoriale. Non si può avere parità a compartimenti stagni, ossia solo in alcuni momenti e ambiti della vita e non in tutti gli altri.