Narrazioni differenti, come ti scopri di fronte alla malattia

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Lasciare una traccia di sé, nel momento in cui la vita ti porta a confrontarti con una parola imprevista, spesso negata, o a volte urlata a squarciagola. Cancro. «Ho il cancro». Spesso arriva come un boomerang, un fulmine a ciel sereno in una meravigliosa notte d’estate, altre volte dà dei chiari segnali prima del suo arrivo, un po’ come un ospite premuroso che, prima di entrare nel tuo corpo, ti avvisa che la sua villeggiatura sarà lunga. Per alcuni è la fine di un cerchio, per altri una sfida, per altri ancora un nuovo inizio.

Cristina, quando ha scoperto di avere un carcinoma al seno in un pomeriggio di maggio, è partita. Ha tentato una transcollinare tra le piccole montagne bolognesi. Voleva vedere fin dove sarebbe arrivata e che cosa sarebbe successo se non ce l’avesse fatta. Laura M., invece, si è infilata sotto le coperte, scoppiando in un pianto senza fine, interrotto solo da un medico in pensione, allora uno sconosciuto, che l’ha costretta a rialzarsi. Si è seduto accanto al suo letto, costringendola subito a fare i conti con la vita che avrebbe avuto poi, forse più vera della prima, ma con un sacchettino attaccato al corpo, che i più chiamano stomia, ma che lei chiama “Faccia di Kiulo”. Perché dare un nome serve sempre per prendere dimestichezza con una nuova parte di sé. E ancora Alberto, che una volta vista una macchiolina sul suo polmone, ha subito chiesto quanto tempo gli rimanesse da vivere. Così, senza mezzi termini, per poi continuare ad andare a cavallo in barba alle lancette che dovevano girare solo per qualche mese ancora, ma che invece continuano a farlo da un paio di anni.

Ed è proprio da qui, da questi frammenti di vita di chi sta affrontando un iter oncologico, che a Bologna è nato Narrazioni Differenti. Da febbraio a giugno una quindicina di persone, tra i 28 e i 60 anni, tutte accumunate dalla malattia, hanno partecipato ad un percorso che le ha portate a poco a poco a raccontarsi, approfondendo tutti i modi per farlo. Dalla poesia, al cinema, al disegno, alla scrittura, fino ad arrivare al giornalismo e alla fotografia, insieme a diversi esperti attivi in ogni campo. Un laboratorio, sostenuto dalla onlus Go for Life e organizzato dall’oncopsicologa Lucia Polpatelli assieme ad una giornalista e un filmaker, che per sei mesi ha trasformato la sala d’attesa della Radioterapia del Policlinico Sant’Orsola in tanti luoghi. Una redazione, una radio, un atelier, uno studio fotografico e una soffitta di poeti e scrittori. Proprio qui, e non altrove, nel posto dove in genere si attende un referto o semplicemente si aspetta prima di una visita pensando a quello che succederà dopo, magari con una rivista o un libro tra le mani. Perché un dopo c’è sempre, e può iniziare anche tra le mura di un ospedale, dove forse si è più a contatto con l’umanità. Quella più autentica, senza filtri, quella che per la prima volta avverte la paura di non lasciare traccia di sé.

«Nel mio lavoro – racconta l’oncopsicologa Lucia Polpatelli – dico sempre che la malattia peggiore non è il cancro, ma è la solitudine. In questi percorsi ognuno ha il suo bagaglio di vita, che è stato bloccato dal cancro, e condividerlo aiuta a creare degli incastri magici, a rielaborare meglio la propria fatica e a prendere le distanze dal dolore. Laboratori come questo contribuiscono a ridisegnare una mappa, e a volte è la stessa malattia che aiuta a trovare un’altra direzione».

La prima a raccontarsi ai microfoni della radio improvvisata in reparto è Sabrina. «Sono una donna e non ho figli». Sessanta secondi per descriversi, per farsi un autoritratto, dove ogni parola ha un peso, e forse è anche un seme. «Non ho un lavoro soddisfacente, non ho una casa al mare, non ho un auto, non ho fatto il giro del mondo. Da pochissimo ho compiuto 50 anni ed ho faticosamente fatto i conti con i progetti dei miei vent’anni. A una prima e superficiale rilettura della mia vita, risalta ciò che non sono riuscita a conquistare. Tuttavia sono felice, innanzitutto perché 50 fulgide primaverili le ho viste. E considerati i miei problemi di salute non era così scontato. Ho fatto dei viaggi, indimenticabili. Mi sento pronta ripartirò, magari con un programma soft. Ho lasciato a lungo passare il tempo, passando che avrei sempre avuto tempo. Non la penso più così». Laura G., invece, tiene in mano e rigira la fotografia di quando sognava di calcare i palcoscenici del mondo con le sue scarpette da ballerina, e pensa alla sua vita se a 13 anni non avesse iniziato a frequentare il Policlinico. «Ad un certo punto sei obbligato a vedere solo ciò che puoi fare e non più ciò che non puoi più fare. E da lì riparti e cerchi di costruire le basi che ti permettano di farti sentire comunque parte di un mondo, anche se così diverso dalle persone sane, che spesso non comprendono i tuoi silenzi, i tuoi malumori o i tuoi eccessi di gioia solo per aver notato un fiore che prima non avevi mai visto. E quando mi sento una disadattata in un mondo che corre, che spende, che non guarda, cerco la bellezza delle cose, delle persone. E ne trovo tanta». Annarosa, invece, si racconta su un pezzo di carta, utilizzando la scrittura come ultima forma di resistenza ai nostri tempi, sempre più frenetici, lasciando decantare le parole una ad una. Scrivere richiede silenzio. «Mi guardo allo specchio. Eccomi qua: timida e determinata. Nata in campagna e vissuta in città. Un sorriso abbozzato ed un broncio sempre pronto a palesarsi La città mi aiuto a mimetizzarmi e questo mi piace, perché non mi piacciono la ribalta e le passerelle. Mi è più facile parlare a Dio, ai Santi e agli animali che non alle persone superficiali o arroganti. Il sorriso di un bambino o dei miei cari mi illumina, l’incertezza del futuro mi crea ansia». Norma, invece, fruga fra i ricordi della sua infanzia, davanti ad un regista che le chiede di aprirsi e mostrare il gruppo come inizierebbe il film della sua vita. E ancora Amanda che si racconta. «Amo il tramonto. È quell’ora incerta, la mia preferita. Perché sono così anch’io, incerta, sempre in precario equilibrio tra fragili instabilità e invisibili certezze. Odio la vita per i motivi che lei sa. Sono una piuma e peso massimo. Delicata e brutale. Mi contraddico? Sì mi contraddico. Sono vasta, contengo moltitudini. Ci vuole una vita per assomigliare alle parole che si dicono: non sono ancora a quel punto. Vivo in un eterna di mezzo dove non esiste bianco e nero, ma innumerevoli sfumature di grigio». Poco più in là, c’è Saverio, artigiano da tutta una vita, costretto anche lui a fare i conti con la malattia e i ricordi della moglie che ha perso per lo stesso motivo. Nella sua testa immagina il suo lungometraggio, ripartendo dalla sua infanzia, quando rischiò di cadere dalla soffitta o quando ancora, a due anni, visse il suo primo ritratto come un trauma. Un fotografo si era messo in mente di immortalarlo, ma lui non ne voleva sapere. Ne uscì un’immagine di un bimbo urlante con due grossi lacrimoni che gli rigavano il viso. E forse fu proprio questo il suo primo ingresso, quasi obbligato, in un mondo, che rimane ancora un grosso mistero. «Riuscire razionalmente a comprendere tutto ciò che ci accade e perché ci accade – racconta – è come cercare in una stanza buia un cappello nero che non esiste. La vita è una sola, e l’amore non basta mai».

Francesca Candioli, giornalista e ideatrice del progetto