Governo, e se Mattarella sceglie una donna premier?

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L’ipotesi del governo “neutrale” sembra essere tramontata prima ancora di poter vedere la luce, considerate le dichiarazioni di ieri di Luigi Di Maio da una parte e Matteo Salvini dall’altra. La soluzione auspicata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non sarebbe, quindi, percorribile in aula nel faticoso compito di ottenere la fiducia del Parlamento, almeno per qualche tempo e qualche provvedimento più urgente, magari anche una nuova legge elettorale. E le elezioni a luglio iniziano a diventare un’ipotesi sempre più concreta.

Certo è che in questo “stallo” degli ultimi due mesi si è fatto largo, sempre più insistentemente, l’ipotesi di un evento epocale: l’affidamento dell’incarico di fare il nuovo governo a una donna. La prima dopo 72 anni di storia della Repubblica. Un’ipotesi, che, a dire il vero, è stata da più parti caldeggiata: dalle associazioni femminili a eminenti commentatori e commentatrici. E molto anche da persone che stimo e che spesso ho trovato di ispirazione in tema di questioni di genere. Eppure questa volta, questo plauso quasi unanime non mi convince. Non che non gradirei vedere finalmente una donne a Palazzo Chigi, ma forse vorrei che non fosse solo per dire “abbiamo avuto una premier”.

Allora ho fatto qualche ricerca e dati alla mano la situazione non è certo rosea a livello globale. Se si prendono gli ultimi 50 anni sono 56 su 146 le nazioni che al mondo hanno avuto una leader politica (presidente o premier), secondo uno studio del World Economic Forum di cui ho scritto per Infodata. E contando solo quelle che sono durate in carica almeno un anno, perché ci sono record di anche solo un paio di giorni se non quando addirittura di 14 ore di mandato. Di leader donne al marzo del 2017 al mondo se ne contavano solo 15. Un club davvero ristretto.

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E’ giunta l’ora per l’Italia di unirsi a questo club? Non credo sia possibile una riflessione in questa direzione che prescinda dalla situazione politica in cui versa attualmente il Paese. Elezioni e post elezioni sono stati analizzati con dovizia di particolari, la sostanza è che un governo al momento è di difficile costituzione e tutti hanno paura di giocarsi il consenso (poco o tanto) che fin qui hanno saputo amministrare. Il governo, di qualunque colore sia a questo punto, risulta essere un’impresa che si preannuncia ardua e magari anche destinata a fallire in breve. Un’impresa che richieda il “sacrificio” di qualcuno che non abbia paura di bruciarsi. E chi meglio di una donna a cui non è mai stata data questa opportunità e magari mai sarà data per i decenni a venire? Almeno così avrà il nome nei libri di storia.

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D’altra parte che nei momenti complessi si ricorra al jolly al femminile non è cosa nuova né in politica né tanto meno in finanza. Lo fece l’Islanda nel 2008 al momento del tracollo del Paese sotto il peso della crisi finanziaria: Jóhanna Sigurdardóttir fu nominata premier e Birna Einarsdóttir fu chiamata a guidare la Bank of Iceland. I giornali internazionali allora titolavano: cleaning up men’s mess. Già, sistemando il caos fatto dagli uomini. Ma la prima premier Islandese ebbe quattro anni per farlo e molte altre donne in posizioni chiave del Paese. Un cambiamento davvero epocale e non di facciata, i cui frutti si sono visti con le elezioni del novembre scorso, che hanno portato Katrín Jakobsdóttir (classe 1976) a guidare il Paese.

Stessa cosa è successa in Gran Bretagna dopo il referendum sulla Brexit: la vittoria a favore dell’uscita dall’Unione Europea ha gettato nello sgomento i politici che aveva fatto la campagna proprio con quel fine (credendo probabilmente che non avrebbero mai avuto la meglio). A raccogliere il testimone della guida di un Paese nel caos (la parola più cercata dopo i risultati del referendum su Google in Uk è stata Unione Europea) è stata una donna, Theresa May, che sta portando avanti i difficili negoziati con l’Ue e sta preparando il Paese ai probabili contraccolpi post divorzio.

Nel mondo delle imprese c’è l’esempio di Mary Barra, chiamata a guidare General Motors nel 2014. Nei primi 12 mesi del suo mandato il gruppo fu costretto a 84 richiami di auto per un totale di 30 milioni di vetture e Barra fu chiamata a testimoniare davanti al Sanato. Oggi è considerata la donna più potente nell’industria globale e guadagna la cifra record di 22 milioni l’anno. Oppure quello di Marissa Mayer nominata ceo di Yahoo! nel 2012, dopo la cacciata del suo predecessore e una serie di scelte sfortunate per i vertici aziendali. Ha lasciato il gruppo lo scorso anno con 23 milioni di buonuscita.

D’altra parte esistono delle vere e proprie teorie sul fenomeno in base al quale le donne sono più predisposte ad assumersi responsabilità in momenti di crsi. In inglese è il cosiddetto “glass cliff“. Ci sono studi, ad esempio, che dimostrano come statisticamente gli uomini vengano nominati a capo delle aziende quotate preceduti almeno da cinque mesi di andamento stabile o in crescita del titolo in Borsa. Per le donne, invece, solitamente i mesi precedenti alla loro nomina (per le poche che raggiungono quella poltrona) sono caratterizzati da azioni in sofferenza. E gli esperti dicono che prendendo in mano aziende già in difficoltà si assumono di conseguenza maggiori rischi e più probabilità di fallire.

Ecco a ben guardare oggi l’Italia potrebbe essere equiparata a un gruppo in sofferenza, con un titolo in Borsa sotto pressione. In più con un apuntamento (presto o tardi, ma comunque a breve) con le nuove elezioni. Vale la pena quindi assumersi il rischio senza la chance di essere una Theresa May o una Mary Barra. E di rischiare invece di essere piuttosto una Ivy Florence Matsepe-Casaburri, passata alla storia per le sue 14 ore di presidenza in Sud America fra un dimissionario e un neo eletto? Ho troppa stima dei nomi fatti finora per pensare che possano essere solo delle figure “ponte”.