Quando un matrimonio finisce… chi paga il conto?

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Nelle partnership di business, il momento migliore per pensare a come finirle è proprio all’inizio, quando tutto va bene e le prospettive sono rosee. Si chiama “exit strategy”: vuol dire concordare i termini di uscita da un rapporto quando lo si avvia. Poco romantico ma estremamente utile quando poi, al momento della fine della relazione, può capitare che alcuni termini della partnership si siano inaspriti, e la negoziazione della fine diventi molto più difficile.

E’ possibile pensare in questi termini anche a una storia d’amore? Anche nel caso dei rapporti di coppia, infatti, non c’è momento peggiore per stabilirne i termini di uscita che quello della rottura del rapporto stesso. Lo sanno bene giudici e avvocati: il divorzio in Italia esiste dal 1970 e oggi un matrimonio su due non “dura per sempre”. Eppure, in modo romantico e un po’ naif, si inizia una storia senza ragionare sul “dopo di noi”. Al momento di separarsi, si confida in giudici e avvocati: nella legge e nella prassi che hanno regolato le separazioni negli ultimi 48 anni. Solo che la realtà, nel frattempo, è cambiata.

Proprio di questo si sta discutendo in questi giorni davanti alle sezioni unite della Suprema Corte, che devono decidere se confermare o meno il verdetto Grilli, che ha cercato di far archiviare il concetto di “tenore di vita” nella valutazione degli alimenti di una separazione. Sembrava una decisione presa, una nuova prassi che avrebbe dovuto sancire il superamento della «concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva», forse cercando anche di accelerare l’emancipazione femminile nel nostro Paese, ma al tempo stesso rischiando di gettare in povertà tutte le ex mogli che hanno scelto per anni di occuparsi solo della famiglia, rinunciando a reddito e professionalità.

Ecco il bivio, per il nostro Paese. Nella rincorsa del cercare a valle una nuova risposta, più adeguata a quella che dovrebbe essere una realtà paritaria nella coppia, i tribunali italiani non possono ignorare lo stato di fatto di un Paese in cui meno di una donna su due lavora, e queste ultime hanno comunque un reddito medio inferiore e un carico di lavoro familiare triplo rispetto a quello degli uomini.

Il salto verso l’indipendenza economica delle donne non può quindi partire dalla fine di un matrimonio. Il sistema può e deve fare di più e prima, con misure magari giuridiche, ma che possono rivelarsi anche fortemente culturali. In un momento di transizione “storica” come questo, sono proprio le indicazioni normative a poter facilitare il cambiamento, rendendolo meno imprevedibile e doloroso, e al tempo stesso educando chi ne viene coinvolto. Come?

Per esempio, introducendo l’obbligatorietà di patti prematrimoniali che guidino la coppia nel comprendere quanto stanno producendo, seppure in ambiti diversi, e, una volta ritradotte in termini economici, governando l’attribuzione corretta di queste risorse. Quanto vale un mese di lavoro casalingo, proporzionato al reddito del coniuge che invece lavora? Quanto vale un passo indietro di carriera per seguire la famiglia, proporzionato alla carriera che la donna ha fatto fino a quel momento e al reddito dell’altro coniuge? Quanto mancato reddito produce un part time, in proporzione al lavoro full time dell’altro coniuge?

E’ possibile stabilire e predisporre un “contratto di avviamento” della vita di coppia che aiuti a definire il valore che si andrà accumulando per ogni coniuge – e i modi in cui dovrà essere redistribuito in caso di una exit ?  Le linee guida di tale contratto possono prescindere dai singoli casi, poiché si collegano a concetti misurabili come il tempo, il denaro e la proporzione dei redditi. Due persone che vogliono unire le loro vite non dovrebbero fare fatica a firmare, insieme a quello di unione formale, un contratto in grado di valorizzare da subito ogni contributo all’andamento familiare, “monetizzando” equamente le ore lavorate da ognuno e rendendoli più equilibrati nel tempo e più liberi nelle reciproche scelte.

E’ solo un esempio, ma la responsabilità di scrivere una storia nuova a proposito degli equilibri di coppia e dell’indipendenza economica femminile non può essere affidata esclusivamente alle aule dei tribunali. Serve di più: uno sguardo più lungimirante, capace e professionale che, nell’interesse del bene comune, scriva nuove regole e ci guidi verso una migliore interpretazione di una realtà… che è già qui.

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  • Luca Chiappetti |

    Quindi volete ridurvi o meglio mantenervi in una situazione di subalternità verso gli uomini facendovi mantenere a vita come se il vostro matrimonio fosse stato già in partenza da voi premeditato come sola e mera scelta calcolata di assicurazione a vita economica…se questa è la vostra posizione mi domando con che coraggio invocate parità quando invece vivete subalternità…siete state obbligate con la forza a sposarvi o era una scelta d’amore?…avete messo al mondo dei figli per amore o perché obbligate con la forza?…avete rinunciato alla carriera per vostra scelta o perché obbligate dal vostro compagno con la forza?…ma in tutto questo la donna persona dov’è??? Dove eravate al momento delle scelte? Eravate in stato di d’incapacità di intendere e volere?…perché non avete condiviso con il vostro lui che volevate continuare a lavorare e che anche lui aveva il dovere e diritto di occuparsi dei figli? Perché avete scelto una persona che invece non è stata presente e vi ha schiacciato in tutto; a leggere ciò che scrive la signora Zazza, sembra che le donne non esistano come persone con volontà e capacità di scegliere ed affermare i propri ideali di realizzazione personale e professionale…se fossi donna sarei incazzata a morte con la signora Zazza e con tutte le altre persone che dipingono le donne come delle mentecatte incapaci di essere e volere in balia di orchi sfruttatori. Semplicemente ridicolo ed infamante per tutte le donne.

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