Donne e potere: perché il denaro non basta

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Bill e Melinda Gates hanno da poco annunciato che la loro fondazione investirà 170 milioni di dollari per “aiutare le donne ad esercitare un potere economico”. La notizia è un’epifania perché, per quanto potesse sembrare ovvio che è meglio insegnare a pescare alle persone piuttosto che rifornirle continuamente di pesce: buona parte dei fondi filantropici dedicati alle donne fino ad oggi si dedicavano a “curarne” le sofferenze piuttosto che a renderle artefici del proprio destino. Il microcredito, con la sua ineffabile logica economica, aveva cominciato a tracciare una strada differente: le microimprese create da donne hanno infatti dimostrato negli anni un tasso di successo e sostenibilità nettamente maggiore di quelle create da uomini.  Anche se in modo forse meno esplicito, già da decenni le ONG preferiscono far arrivare i fondi alle donne, nella certezza che in questo modo verranno spesi per la famiglia e non in alcool. Melinda Gates rafforza il messaggio:

“Una delle statistiche più incredibili che ho visto dice che, se è la madre a controllare il budget familiare, i figli hanno il 20% di possibilità in più di sopravvivere. Donne che agiscono per se stesse possono far accadere ciò che tutte le organizzazioni filantropiche del mondo non riusciranno mai a ottenere: cambiare la legge non scritta che dice che le donne valgono meno degli uomini. Il nostro ruolo secondo noi è quello di fare investimenti mirati che diano alle donne la possibilità di scrivere nuove regole”.

“Detto in modo semplice, se il denaro confluisce nelle mani di donne che hanno l’autorità per usarlo, tutto cambia” è la sintesi della filantropa. In questa frase è però nascosto il germe che potrebbe indebolire in parte questo sforzo considerevole: “donne che hanno l’autorità”. Manca, al piano ampio e molto ben congegnato della Fondazione Gates, un tassello piccolo ma di fondamentale importanza: le donne infatti, a differenza degli uomini, non hanno alle spalle una tradizione di “potere”.

Che cos’è il potere? “Nei primati non umani, il potere animale è determinato dal grado in cui si riescono a dominare i propri simili”. Una definizione scientifica estremamente simile a quella che caratterizza il potere umano. Ma forse la specie umana può fare di meglio.

Sin da quando Telemaco, figlio di Ulisse, zittisce la madre Penelope a la rimette “al suo posto”, le donne sono state abituate a non avere potere, a non avere leadership. Il potere e la leadership sono storie scritte da uomini, a cui le donne si sono – quando meglio e quando peggio – adattate: nella forma e nella sostanza. Il riferimento a Telemaco è di Mery Beard, notissima scrittrice e studiosa americana, che nel recente pamphlet su “Donne e potere” evidenzia anche come, sin dalle narrazioni più antiche, le donne di potere fossero essenzialmente uomini, senza più niente di femminile: guerriere e vergini, come per esempio la dea Atena – ed ecco, ad esemplificazione massima, la foto di Angela Merkel e Hilary Clinton che si stringono la mano, mimetizzate nei loro tailleur maschili.

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In mancanza di un modello di potere e di leadership scritto da loro, le donne possono “interpretare al meglio” quello esistente ma, non sentendo familiarità con ciò che trovano, finiscono col ridurre le proprie ambizioni all’avere un impatto immediato e circoscritto alla propria realtà più prossima: linguaggi e regole del tavolo del potere non le attraggono né motivano a partecipare alla gara che si svolge sullo stage principale. Le soluzioni proposte dal dibattito di queste settimane sono per esempio “insegnare alle donne ad amare il denaro” – che è un po’ la versione “alta società” del dar loro potere economico. Solo 227 dei 2.043 miliardari recensiti nell’elenco annuale di Forbes sono donne, e le donne stesse si interrogano su come far acquisire alle proprie figlie la giusta dose di avidità. Come convincere le bambine ad aderire a “quei” valori per avere successo in “questo” mondo?

In alternativa, ed ecco la mia proposta a Bill e Melinda, nell’ambito dello stesso movimento con cui si distribuisce alle donne il potere economico, si potrebbe proporre loro un nuovo modello di leadership, che risuoni in profondità nel loro istinto e le ispiri a voler avere un impatto oltre il qui e ora: esteso nel tempo e nello spazio – pubblico, politico, economico. Arrivare al tavolo principale non per adattarsi al meglio a ciò che c’è, ma per cambiare la definizione di potere, come le donne già fanno nelle rare ricerche che hanno indagato proprio questo aspetto: come cambia il concetto di potere, se le donne si sentono libere di definirlo? Diventa responsabilità, diventa un potere materno e generativo, diventa senso della possibilità. Un modello di leadership che incarni questo nuovo dizionario del potere renderebbe interessante per le donne mettersi in gioco per avere un impatto molto più ampio: vi si riconoscerebbero e ne diventerebbero protagoniste, portando finalmente il loro valore – quello dello “loro” autorità – nel mondo.

  • Bruna katalan |

    Per cambiare le cose e condividere il potere ci vorrebbe più ” sorellanza” . Noi donne non siamo ancora ( a mio parere) in grado di sostenerci e di creare solidarietà . Io sono ” grande” ma spero che le giovani donne riescano a farlo…. questa sarà la carta vincente per raggiungere ogni obiettivo e infrangere i ” tetti di cristallo”

  • Gianpaolo Betti |

    Basta con le ingiustizie salariali e professionali verso le donne. Meno male che anche in Italia stiamo assistendo a reazioni positive, come l’assegnazione del Premio Donna Manager da parte di ALDAI/FEDERMANAGER e (addirìrittura!) da parte della Santa Sede che grazie al cardinale Ravasi ha costituito l’organismo La Consulta femminile con 36 autorevoli protagoniste dei vari settori produttivi e sociali. Speriamo bene!

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