Una conversazione (a distanza) con Patti Smith

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Da quando ho approfondito il pensiero di Ken Robinson, attraverso i suoi libri e numerosi speech su Ted, sono alla ricerca della mia Epifania. La possibilità di cogliere l’essenza di se stessi in una sorta di rivelazione, un magico attimo di consapevolezza che può essere innescato da un evento casuale, un’esperienza inattesa, un confronto inusuale, mi affascina terribilmente.

Ebbene, non so se sarà sufficiente per trovare la piena espressione di me, ma l’incontro con Patti Smith scrittrice è stato unico, per intensità e senso di identificazione. Ecco perché ho voluto seguire personalmente, lo scorso 3 maggio, la cerimonia in cui l’Università d Parma – prima in Europa – le ha conferito la laurea magistrale ad honorem in “Lettere Classiche e Moderne” su proposta del dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali.

Diciamo la verità. Avrei voluto averla tutta per me per almeno un’ora e chiederle un’infinità di cose: da dove viene quella sconfinata libertà di vita che l’accompagna da sempre, che cosa l’ha spinta a credere di poter diventare davvero un’artista, come ha fatto a far convivere la sua urgenza creativa con la crescita di due figli, perché non si descrive quasi mai come una donna, cosa pensa di fare della casa di Rimbaud appena acquistata… eccetera, eccetera. La cosa, ahimè, si è rivelata impossibile. Ma ho comunque dialogato con lei durante l’intera cerimonia, in uno scambio serrato di energia dalla sesta fila, posto 14, dell’Auditorium Paganini di Parma.

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Magnifica nella tua autenticità, le amate treccine nascoste tra le ciocche bianche, sedevi composta a fianco della triade accademica – il rettore Loris Borghi, il presidente del Corso di Laurea Magistrale in Lettere Classiche e Moderne, Massimo Magnani, il direttore del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, Diego Saglia –, ma qualcosa di irriverente trapelava da te, conferendo alla scena una rima di ironia. Mi è sembrata un’immagine degna del tuo ultimo scritto, M Train.

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Patti Smith, Gods hand

Gli occhi socchiusi, le mani in grembo, ascoltavi deliziata il Coro universitario “Ildebrando Pizzetti” e poi l’Orchestra dell’Università di Parma. Rapita dalla musica, il tuo capo seguiva il ritmo delle note e di certo componevi versi col pensiero, mentre trattenevi a stento il sorriso. Presente e al tempo stesso altrove come nella tua vita, come nei tuoi testi visionari, in cui conversi indistintamente con vivi e defunti, in cui angeli e oggetti comuni hanno la stessa sacralità. Così come racconti nel tuo diario visivo in mostra al Palazzo del Governature, dal titolo Higher Learning, alludendo all’università della vita.

Patti-Smith-Pier-Paolo-Pasolinis-grave-Giulia-Italy-2015-Gelatin-silver-print-edition-of-10-8-X-10-in-20.3-X-25.4-cmE poi, d’un tratto, sei tornata presente, hai inforcato leggeri occhiali da vista e hai seguito la relazione del rettore, la motivazione del conferimento della laurea sino alla lettura in inglese della Laudatio in onore della matrice letteraria della tua arte. Emozionata, hai ripercorso i tuoi anni irrequieti di ricerca e sperimentazione di linguaggi sempre diversi, i tuoi mentori, i tuoi compagni di cammino, tutte le forme d’arte in cui hai trovato espressione. Un’artista poliedrica si dice di te, ma all’inizio furono i libri la tua passione, dopo la preghiera. Entrambe insegnate da tua madre.

A testimonianza che in te “non c’è alcuna vera separazione tra il momento dell’ispirazione e il relativo gesto di creazione” è stato riletto l’attimo in cui hai trasformato lo strazio per la morte di Robert (Mapplethorpe) in poesia, come racconti in Just Kids. Quello che tu chiami “lavorare su una serie di impulsi, al confine con l’illuminazione”. Un brivido profondo ti ha attraversato al suono di quelle parole:

“[…] in riva al mare, dove Dio è ovunque, poco a poco, mi calmai. Stetti a guardare il cielo. Le nuvole avevano i colori di un Raffaello. Una rosa ferita. Ebbi la sensazione che l’aveva dipinta lui stesso. Lo vedrete. Lo riconoscerete. Riconoscerete la sua mano. Queste parole vennero a me e so che un giorno avrei visto un cielo disegnato dalla mano di Robert […] Vennero le parole e poi una melodia […] Avevo trasfigurato le contorsioni del mio dolore e le avevo distese come un panno lucente, una canzone in memoria di Robert”.

E, poi, è arrivato il momento dell’investitura a dottoressa magistrale ad honorem, con il rito della vestizione della toga accademica, la consega della pergamena e il tocco da parte del rettore, e la tua commozione si è fatta evidente. Appena prima di prendere la parola, il tuo sguardo leggermente strabico – che il tuo adorato Fred “cercava di intrappolare nel suo sguardo fermo” – e la dolcezza del tuo sorriso hanno abbracciato il pubblico. Ma quando hai iniziato a declamare versi la tua voce si è fatta potente e la forza indomita della poesia si è diffusa ovunque. Chissà se tenevi in tasca un talismano, un oggetto sacro, un sasso qualunque, a trasmetterti l’energia dell’universo. Della tua lectio doctoralis mi rimane in particolare il monito preso a prestito da L’Alchimista: “Mantenete il linguaggio dell’entusiasmo”. Ripetuto tre volte, come un mantra, per tutti noi.