Un premio riservato a nere, arabe e indiane? Ecco perché va bene così

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Lo scorso fine settimana a Cardiff si è svolta l’edizione 2017 dell’Ethnic Minority Welsh Women Association awards: in Galles esiste un premio alla carriera della donne, purché siano nere, arabe, indiane. Insomma purché siano parte di una minoranza etnica. Il riconoscimento va a persone che si sono distinte nella politica, nell’imprenditoria, nelle scienze, nella cultura e nella società. Una specie di Nobel in piccolo, riservato esclusivamente a categorie svantaggiate (le minoranze etniche) all’interno di una categoria svantaggiata (quella delle donne). Insomma, un ghetto al quadrato.

Il punto è: è proprio così? Dare un premio a una donna che sulla carta è meno vincente di un’altra soltanto perché lei è nera e l’altra è bianca è una forma perdente e anche un po’ autolesionista di affermazione della debolezza femminile, oppure è un passaggio che ha un senso? In fondo, è lo stesso dibattito che c’è attorno alle quote di genere nei consigli di amministrazione: è giusto imporle per legge, se si vuole far avanzare le donne, oppure è ghettizzante, perché le quote rosa sottintendono che da sole non ce la faremmo mai, a essere alla pari?

All’associazione gallese in questione, che promuove i diritti di tutte le donne, basta solo una parola, per giustificare la bontà della propria scelta. Anzi due: role models. Queste donne premiate, cioè, rappresentano un modello per tutte quelle ragazze nere, arabe o indiane che vivono nelle periferie e che non hanno le stesse opportunità economiche, sociali e culturali delle loro coetanee di studiare, perseguire un sogno, farsi strada nella vita.

Per una giovane araba costretta a litigare con il padre e la madre perché vorrebbe poter andare a scuola senza quell’hijab che la sua famiglia e la sua cultura le impongono, per esempio, è d’incoraggiamento sapere che c’è una donna irachena che si chiama Layla Jader, con il capo scoperto e una laurea in medicina, che da anni porta avanti con successo i suoi studi di genomica all’interno del Servizio sanitario nazionale britannico. Così come per le ragazze indiane destinate a un matrimonio combinato e al trasferimento nella casa dei suoceri, un aiuto a dire «no! io non ci sto» potrebbe arrivare da Versha Sood, premio 2017 all’autoimprenditorialità per aver messo in piedi un centro che ospita pazienti affetti da demenza senile.

La verità è che non basta nemmeno un Nobel-ino a dare una spinta verso l’alto alle minoranze etniche femminili. Una ricerca del 2015 voluta da Runnymede Trust, associazione britannica per la lotta alle discriminazioni razziali, raccontava un dato agghiacciante. Sapete quante professoresse nere ci sono in TUTTO il blasonato sistema universitario della Gran Bretagna? Soltanto 17.