Se il “parenting” diventa “sharenting”

I minori vanno educati all’uso della Rete, ma da chi? Senza dubbio, in primo luogo, dai genitori. Ma i genitori quanto sono effettivamente loro stessi educati ad un uso consapevole di internet?

Pensiamo ad esempio allo sharenting, creativa parola nata dalla combinazione di parenting e sharing  che indica quella diffusissima tendenza dei genitori a condividere sul web tutto ciò che riguarda i figli: dal momento della nascita alla prima poppata, dal primo sorriso alle prime parole, dai primi passi al primo compleanno e via dicendo.

Sicuramente esiste un tema di sovraesposizione dei bambini online: secondo uno studio dell’associazione inglese Parent Zone pubblicato nel 2015, ogni anno un bambino appare in media in 195 istantanee immesse nel web dal genitore e che, al compimento dei 5 anni, sarà protagonista di circa 1000 scatti. Uno studio pubblicato nel 2010 dall’AVG indicava che circa il 92% dei bambini americani di 2 anni è presente online. Alcuni appaiono nel web prima ancora di nascere, vista la moda di postare le immagini ecografiche, mese dopo mese, come scatti d’autore.

15940615297_b6e61e5883_cIn Francia, mamme e papà possono essere denunciati dai figli, una volta diventati adulti, per aver condiviso immagini in rete senza il loro permesso. La legislazione francese sulla privacy, infatti, prevede un obbligo di responsabilità di ciascun genitore nei confronti dell’immagine dei figli. Fino a un anno di detenzione o 35mila euro di multa per chi pubblichi immagini di bambini, figli compresi, senza il consenso dell’interessato.

Ma è solo un tema di tutela della privacy? In realtà, secondo alcuni studi, ci sono anche rischi concreti: secondo l’Office of the Children’s eSafety Commissioner australiano, metà delle immagini pedopornografiche è frutto di una manipolazione di immagini messe in rete dai genitori. Nel suo articolo “Sharenting: Children’s Privacy in the Age of Social Media,” che sarà pubblicato nell’Emory Law Journal nella primavera del 2017, Stacey Steinberg dell’Università della Florida cita il caso di una mamma blogger la quale scopre che le foto della figlia sono oggetto di scambio tra pedofili.  In più una foto nasconde anche i metadati, ossia sulla localizzazione e altre informazioni che possono consentire di identificare genitore e bambino.

E ancora: come potranno essere usate le informazioni messe online dai futuri datori di lavoro, da chi dovrà ammettere nostro figlio ad un corso o concedergli un mutuo? Si sta lavorando a livello europeo perché un bambino, diventato adulto, possa avere il diritto di chiedere la rimozione di contenuti immessi nel web prima dei suoi 18 anni, ma si dimenticano, in questa campagna di advocacy, foto, video e altri contenuti che lo riguardano postati dai genitori.

In caso di divorzio tra i genitori, poi, le foto pubblicate da uno dei due genitori possono essere citate nelle cause per sottolineare l’inaffidabilità dell’ex o chiedere l’affidamento esclusivo del bambino.

Si tratta di questioni diverse e complesse, sulle quali è facile oscillare tra posizioni che enfatizzano l’aspetto giocoso e posizioni più allarmiste che sottolineano i possibili rischi. Un buon punto di partenza per uscire dalla complessità è quello di consenso informato: un genitore di volta in volta potrà decidere cosa mettere online, purché sia adeguatamente informato dei rischi e consapevole di poter scegliere con chi condividere i contenuti modificando le impostazioni del suo profilo social, per esempio.

Certo è che alcune manifestazioni di orgoglio smisurato per i propri figli sui social, con il loro sapore adolescenziale, danno da pensare non solo a chi si occupa di sicurezza in rete, ma anche e soprattutto a chi si occupa di psicologia. La speranza è duplice: che la genitorialità non si nutra eccessivamente e solamente di orgoglio e ammirazione. E che l’orgoglio per un figlio non si riduca ad una foto su un social.

 (in collaborazione con la dottoressa Barbara Forresi, psicologa e psicoterapeuta esperta di adolescenti e nuove tecnologie)